Ma cosa è la libertà? Crocianamente nella pagina della storia che dice la verità, è la libertà. Ma nel mondo greco il concetto di libertà riguardava l’ambito politico e quello anche del mito e del religioso. Nel mondo politico tanto i greci e poi i romani parlarono e scrissero della libertà della “polis” e della “res publica”. Come è noto gli antichi concepirono la libertà in relazione alla potenza e alla autonomia dello Stato; e tuttavia ciò non tolse che tanto i greci quanto i romani concepirono anche la libertà del cittadino fornito di diritti politici e, al tempo stesso, libero nel suo agire in conseguenza di giuste leggi e giuste motivazioni. Il pensiero cristiano, invece, al di là di quello greco e romano, ebbe anche il concetto, soprattutto agostiniano e di san Tommaso sul “libero arbitrio”, libertà morale, individuale, onesta nei suoi movimenti etici e morali, al di là della Grazia o della Provvidenza. Le rapide riflessioni esposte in anteprima sul concetto di libertà nel variare morale, religioso etico e politico dei secoli, possono essere utili a ben considerare il recente ed acuto saggio del professore emerito dell’università di Bari, Luciano Canfora su “Dante e la libertà”. Saggio di circa 40 pagine con l’aggiunta di un commento a tre precisi canti di Dante, rispettivamente uno del Paradiso (VI), l’altro del Purgatorio (I°) e il terzo dell’Inferno (XXVI), canti riprodotti dall’edizioni a cura di Enrico Malato, Salerno editrice, Roma 2018. La pubblicazione del professore Canfora esce dal Corriere della Sera – Solferino – febbraio 2013. Ed ora andiamo all’interessante ed approfondito lavoro del professore Canfora il quale pone al centro del suo estetico e filosofico discorso il problema della “libertà” che Dante andava cercando e tradusse nei suoi versi: “Ch’è sì cara, come sa chi per lei vita rifiuta” (Purg. I°, 71-72). Una libertà che il Poeta, nel suo triplice viaggio ultramondano, con la guida saggia e prudente di Virgilio, sino al Paradiso escluso, cercava di comprendere e di illustrare attraverso i suoi versi e che troverà nell’incontro con Beatrice l’esito più spiritualmente vicino al suo pensiero umano, cristiano, ultramondano. Da questa ricerca si sviluppano le riflessioni di Luciano Canfora intorno alla “parola colossale”; e i protagonisti dei tre canti, si badi bene, uno per cantica, sono Cesare, Catone, Ulisse. Il ragionamento dei loro pensieri sulla libertà sono in vero concetti che Dante recava in sé, nel suo travaglio culturale, nella sua stessa “dottrina” sul valore e sul merito di quella sacrosanta parola, che è immagine dell’uomo in sé, fuori di sé e del segno santo nel quale si conclude il difficile viaggio espiatorio del poeta. La libertà, come Canfora scrive, investe la natura dell’uomo e costituisce il “problema dei problemi”, cioè le ragioni stesse del vivere umano e sociale. Canfora, nel suo saggio, considera primamente la Storia di Roma, il punto di partenza più appropriato, nella polarità fra Cesare e Catone che si toglie la vita “in atto di estrema protesta contro la vittoria di Cesare su Pompeo, l’affermazione di una personalità, quella di Cesare che abbatte la libera repubblica romana per costruire uno Stato “unum” sotto il segno proprio di Cesare”. Ma Cesare e Catone sono due “figu re”, avrebbe anche detto Auberbach che Dante affronta quale riflessione sulla migliore forma di governo; sono due figure antipodiche. Tuttavia è proprio del VI canto del Paradiso, il cui protagonista è Giustiniano, che racconta di Cesare, in rispondenza al VI del Purgatorio in cui Sordello parla delle sorti d’Italia, divisa tra guelfi e ghibellini e al VI dell’Inferno dove Ciacco lamenta la travagliata vita politica della sua Firenze. Ma, ripeto, nel VI del Paradiso Giustiniano affronta il tema dell’impero: Cesare è al centro del discorso storico che ha inizio da Enea ed Evandro. “Poi, presso al tempo che tutto ‘l ciel volle / redur lo mondo a suo modo sereno / Cesare per voler di Roma il tolle”. Cesare, dunque, in attesa che il mondo fosse in guerra e in pace, preparava nel tempo futuro quel segno per cui lo stesso vivere umano avrebbe avuto sereno concepimento e pace. Egli “scese folgorando a Iuba / onde si volse nel vostro occidente / ove sentia la pompeiana tuba”. (Par. VI, 70-72) Cesare, per Dante, combatté e contrastò Tuba, alleato di Pompeo e dunque di Catone. Quindi l’antagonista del sesto canto del Paradiso non è Catone ma Iuba, per quale fine? Canfora cita le parole di Tacito, primo capitolo delle Historiae: “Post quam omnem potentiam ad unum conferri pacis interfuit”. In quell’ “unum”, cioè in una sola persona, Dante sente che la libertà di ridurre il mondo a serenità di pace è proprio in quel condottiero romano che sarà il portatore di quella unità dei popoli che renderà in Arrigo VI di Lussemburgo il difensore anche di Carlo Magno contro i Longobardi. Quella libertà di portare il mondo a suo modo sereno e politica è quel sesto canto preludio ad un’altra libertà al quale Dante teneva, quella etica, morale, di uno spirito purificato da ogni male e quindi redento, al di là di ogni confessione politica, attraverso la sublimazione del libero spirito. Ed è Catone, ben noto a Dante, anche attraverso, come scrive Canfora, il libro di Brunetto Latini, il “Tresor”, ed anche per quella “catilinaria” di Sallustio che suscitò, per amore della libertà, la stessa realtà romana del tempo attraverso una lotta intestina che condusse Roma alla vittoria su Catilina. Ma qui di quale libertà si parla? “Va cercando libertà e rifiuta la vita”; è il principio di Catone ed è il contrario di quel governo cesariano perché in Catone che obbedì in terra alla legge morale, lui ancora pagano, è custode per Dante di quell’antipurgatorio senza il quale non si accede al Paradiso. In Cesare c’è la libertà politica, in Catone la libertà morale e religiosa precristiana, come già si legge in un passo dell’epistola di Dante ai fiorentini (Ep. VI, 22); una libera, osservando la legge morale, nell’uomo è suprema libertà. Come un padre, se Cesare ispira forza e sicurezza, Catone riverenza. Egli è un pagano ed è un suicida ma Dante lo pone quale custode delle anime che vanno a purificarsi. E alla fine non andrà nel nobile castello dei sapienti detto “Limbo”, sul quale Canfora si ferma acutamente proprio nel concetto che il limbo dantesco, al di là dell’Acheronte, raccoglie uomini celebri nella vita al di là di qualsiasi fede religiosa, come la figura del Saladino, grande nella sua saggezza. Dunque in Cesare la libertà è politica necessaria ai suoi tempi, in Catone è religiosamente morale ed è già legge del Dio cristiano, ma c’è una terza libertà, quella per la quale Virgilio, nel lasciar Dante alla soglia della terza cantica ormai Dante accanto a Beatrice, pronuncia quelle nobili parole: “Non aspettar di udir più né mio cenno / libero, dritto e sano è tuo arbitrio… / per ch’io te sovra te corono il mitrio”. (Purgat. XXVII, 139-142) Ed è, come scrive acutamente Canfora, quel libero arbitrio per il quale Dante è ora libero, dritto e sano e può essere coronato e mitriato. Così Dante perviene ad una nozione di libertà che consiste nella consapevolezza che il limite è per dirla come Hegel, nella consapevolezza della necessità. Un controllo in sé medesimo, senza negare il desiderio di vivere una libertà come motore della vittoria e della personale esistenza. E qui Dante ci parla di un altro protagonista, della volontà di esser libero: Ulisse (Inf. canto XXVI, 85-142). È l’ultimo viaggio di Ulisse nella volontà dell’astuto e deciso greco e dei suoi compagni; è il desiderio di andare al di là delle colonne d’Ercole. Perché? “Considerate la vostra semenza, / fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza”. È certamente un andare contro la legge cristiana laddove c’è la montagna alta del Purgatorio, ma lui pagano, nella sua libera volontà di conoscere, apre un viaggio senza ritorno: “in fin che il mare fu sopra noi richiuso” (142). Nel significativo e profondo saggio di Canfora i tre volti della libertà in Dante sono lo stesso Dante perché in lui è la voce eterna dell’umano procedere dell’uomo, della sua vita, della fraternità di una nazione unita e senza guelfi e ghibellini, nella libertà morale di Catone, già seguace della legge di un Dio cristiano e nella libertà di quel libero pensiero che è già libero arbitrio, tenace, volitivo, ma sempre unito anche nella conoscenza, alle leggi morali del Cristianesimo; ma il libero arbitrio è consacrato dalla legge divina; e questa libertà con le altre libertà è un tutt’uno che fa di Dante l’eterno protagonista dell’umana esistenza. Un saggio, questo del professore Canfora, da studiare e da meditare per la valutazione assai profonda e necessaria sul concetto dantesco della libertà; nel tempo senza tempo una continuità, ripeto, senza l’orologio del tempo, nell’assoluto spazio dello spirito che fa di Dante un genio.
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