Schiacciato da una vita all’insegna della fretta, del successo, dell’affermazione sociale e professionale, assoggettato alla logica degli interessi personali e risucchiato sempre più dall’uso di una affascinante strumentazione tecnologica, l’essere umano attraverso la preghiera ha, in questi giorni pre-pasquali, la possibilità di aprirsi a un mondo assai diverso, caratterizzato dall’indugio e dal raccoglimento, dalla gratuità e dalla solidarietà. Trovare il modo per raccogliersi in preghiera, per dischiudersi a una modalità esistenziale che lo può far vivere gustando altre dimensioni della vita, offre prospettive inedite. L’etimologia del termine preghiera risale a precarius e rinvia alla situazione di bisogno dell’essere umano, che nel mondo si sente minacciato. Così intesa, la preghiera attesta l’assunzione della nostra radicale povertà e si apre alla figura dell’attesa. Questa è attivissima tensione verso, l’ attività propria dello spirito che fonda la possibilità stessa azione. All’uomo postmoderno, incapace di attesa, propenso sempre più al fatalismo e ripiegato su di sé dopo il crollo delle ideologie e dei messianismi secolarizzati, non è inutile ricordare l’essenzialità antropologica dell’attesa della rinascita. Con l’attesa si fa spazio all’altro e per lui si scava in noi uno spazio. Questo, tra gli altri fattori, spiega il predominare della preghiera di domanda nelle varie religioni. Sulla multiformità espressiva del pregare Antoine Vergote è puntuale: «Da quando, con il linguaggio, l’essere è nato da un’estremità all’altra del mondo tutte le culture portano al nostro orecchio l’immenso brusio di multiformi preghiere: preghiere di angoscia o di gioia, preghiere che palpitano sul ritmo infinito del respiro, preghiere cantate in canti a più voci, preghiere silenziose e preghiere che testimoniano e proclamano, preghiere scolpite nel marmo, preghiere modellate nell’argilla o intagliate nel legno, preghiere credenti e preghiere che si rivolgono a un destinatario senza nome» (Sources et ressources de la prière in AA.VV., La prière du chrétien, Bruxelles 1981). Dal canto suo Ludwing Wittgenstein afferma: «pensare al senso della vita» è pregare (Appunti 1914-16). Il pregare occupa, dunque, uno spettro cromatico variegatissimo che comprende mito e mistica, immanenza e trascendenza, verbosità e apofatismo, timore e amore, supplica e lode, pane e regno di Dio. È essenzialmente nella preghiera che la religione si manifesta, onorando il proprio etimo: re-ligare, legare, creare un vincolo, stabilire un nodo. La religione appunto è la relazione tra l’uomo e il divino (cui mira ogni forma di religiosità). Occorre recuperare quel lievito che l’autentica religiosità oggi può dare agli umani, riscoprendo la preghiera come ricerca. Una preghiera, questa, che viva, però, della e nella problematicità religiosa. Il che potrebbe favorire l‘affinamento di almeno due consapevolezze. L’una: nessuna religione può rinnegare la verità posseduta, dal momento che ciò significherebbe tradire la propria fede. Tuttavia le religioni hanno il dovere di interrogarsi davanti alla verità dell’altro, non per lasciarsi “convertire”, bensì per far sì che la verità posseduta si dispieghi ulteriormente. Ci si deve lasciare interrogare dalla verità dell’altro, constatando che storicamente non si possiede mai la verità piena e che il confronto prima e il dialogo poi possono far lievitare in tutti una verità più grande. L’altra: credere nel dialogo inteso come allargamento degli orizzonti. Schiudersi alle altre categorie fino a comprendere e ascoltare l’altro (cristiano, buddhista, mussulmano eccetera) significa riconoscere lo statuto teologico altrui. Premessa fondamentale per farsi, nel 2023, costruttori di pace. In chiusura una chicca dalle forti implicazioni massmediologiche.Secondo una recente ricerca del National Institute for Health Care Research degli Stati Uniti, pubblicata su Health Psycholoy, rivista dell’American Psychological Association, chi possiede uno spiccato senso religioso può contare su una maggiore aspettativa di vita epperciò vive più a lungo. Sulle ragioni di questa longevità gli studiosi avanzano più ipotesi. Una prima: chi frequenta una comunità ha maggiori probabilità di intessere relazioni, che possono essere di giovamento sia sul piano psicologico sia su quello della mutua assistenza. Una seconda ipotesi: sembra che le persone attive in campo religioso tendono ad avere anche, in generale, maggiore, cura di sé. Una terza ancora: (curiosamente) sembra che coloro che frequentano assiduamente i propri templi siano in media meno obesi. Con tutto quello che ciò comporta sul piano della prevenzione.
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