“Io sono la lampada ch’arde soave! Nell’ore più sole e più tarde; nell’ombra più mesta, più grave, più buona, fratello” (Giovanni Pascoli “La piccozza” V stanza) *** Il discorso che oggi, in tutta Italia, si vuole manifestare è in relazione alla eternità, validità, immortalità della poesia. E tuttavia comincio con una frase di Moravia: “è ancora possibile la poesia?” pronunciata nel discorso per l’assegnazione del premio Nobel per la letteratura il 12 dicembre 1975. Una frase provocatoria ma che, tuttavia, pone un problema etico, estetico e, al tempo stesso, poetico. Problema che si è sviluppato nel corso dei secoli per la nostra storia letteraria; dall’ora del “Cantico delle creature” di San Francesco per il quale non c’è letteratura che non parli di poesia all’origine della trasformazione dei dialetti nella lingua volgare; ma quel concetto di poesia non è tale perché il Cantico delle creature di San Francesco è una preghiera, un’alta, solenne e serafica preghiera che è la più bella, come fu scritto, dopo il Vangelo. Ma è necessario ora chiarire un concetto: la poesia non è né poetica né estetica; al tempo di Dante il concetto di poetica inglobava anche quello di poesia ma era tuttavia un termine derivato da Aristotele del pensiero classico che durò, come concetto sovrano, fino al Settecento e designò la precettistica concernente i criteri della produzione artistica nonché quelli di un giudizio estetico. Così nella “Poetica” di Aristotele o nella “Ars poetica” di Orazio. Le cose, dopo il Settecento, cambiarono e già Ugo Foscolo, in un’orazione pavese parlò di poesia come sentimento puro ed eterno della mente e del cuore umano; un sentimento fluido, immacolato e tale da produrre nell’animo del lettore pensieri dolci ed eroici furori. In verità la prima forma di critica letteraria intorno al concetto della poesia fu di Francesco De Sanctis il quale nel suo saggio sul Petrarca parlò della “forma” che non intendeva la formalità di un periodo quale nell’uso scolastico ma per lui la forma era il “contenuto realizzato”; ed era un concetto che abbracciava, non solo, la parte formativa della coscienza umana ma lo stesso inglobava nella realizzazione del termine poesia anche l’altro dal bello che era il brutto perché anche esso, se realizzato, non poteva essere se non altamente poetico. Lo si vide nella musica ove anche un gobbo quale Rigoletto riesce ad essere poeticamente e musicalmente eccellente al di sopra e al di là di altri personaggi che non hanno conquistato a pieno la mente dell’artista. D’altra parte la stessa proiezione poetica era nell’opera di Victor Hugo “Il re si diverte” che rappresenta il massimo della poeticità in Notre Dame di Parigi. Al concetto di purezza della poesia, già nel senso universale della parola, non si può non porre in risalto il celebre scritto di Giovanni Pascoli “Il fanciullino”. In quello scritto il poeta aveva sottolineato: “nulla è più proprio della fanciullezza della nostra anima che la contemplazione dell’invisibile, la peregrinazione per il mistero”. E allora il fanciullino diventa per il Pascoli quell’espressione da brividi come credeva il tebano Cebes che per primo lo scoperse. Quando la nostra età è tenera la voce di quella fanciullezza, se riportata alla purezza della nostra vita interiore, produce quel sentimento della vita che crea nella poesia l’eternità dell’essere umano e della vita stessa. Indubbiamente se Pascoli aveva nel fanciullino prodotto il concetto fondamentale della sua visione artistica e quindi la “poesia è una lampada che riscalda i cuori e arde nelle ore più tarde e più sole o nell’ombra più mesta, più grave, più buona” per il Carducci il poeta è un grande armiere che come fabbro lavora al suo ferro e lo modella a suo genio; e per il D’Annunzio la poesia è figlia della cicala e dell’ulivo il che voleva significare che la poesia è libera di cantar nell’aria ed è pura come l’olio che esce dall’antico albero greco: l’ulivo. Ed entrando nell’epoca nostra Ungaretti tornava a sentire nel verso il passo, il palpito, il trattenuto respiro: il ritmo, la natura. Il poeta, dunque, deve imparare l’armonia poetica, l’aderire nella parola con tutto se stesso e in questo, Ungaretti, tornava, non solo, al concetto della forma desanctisiana ma al concetto estetico di Benedetto Croce che aveva nel “Mese 923” e in altri lavori successivi affermato, a proposito della Comedia di Dante, che i versi del sommo poeta potevano essere versi di altissima poesia e versi legati alla poetica del tempo che Croce chiama struttura e, ancor meglio, “allotria”. E tuttavia Croce ammetteva che il genio di Dante aveva saputo unificare le parti cosiddette strutturali quali quelle storiche, geografiche, escatologiche o teologali, con quelle altamente significative della poesia che si ritrova all’improvviso nei canti che egli, di volta in volta, e di tempo in tempo scriveva, in una unità compatta di voci allotrie e di voci altamente poetiche. Per venire ancora ai nostri tempi c’è un discorso sulla poesia pubblicato da Quasimodo edito nel 1956 e si può dire che tra i poeti legati all’Ermetismo egli è stato quello che con sincera passione e forte impegno ha tentato di rinnovare la sua poetica e dare al suo linguaggio artistico nuova dimensione e valore con opportune scelte morali ed estetiche. Egli scrisse “i filosofi, i nemici naturali dei poeti, e gli schedatori fissi al pensiero critico affermano che la poesia e tutte le arti, come le opere della natura, non subiscono mutamenti né dopo le guerre, tante, che ci sono nei secoli trascorsi e che ci saranno. Illusione perché la guerra muta la vita morale di un popolo e l’uomo al suo ritorno non trova più misure di certezza e un modus di vita interno dimenticato o ironizzato durante le sue prove con la morte”. Insomma il discorso sulla poesia del Quasimodo, che fu scritto dopo l’immane seconda guerra mondiale, è la conclusione di altri saggi sul valore dell’arte e sulla lingua che sono documenti operativi di un pensiero estetico in “nuce” ed anche un campionario di scelte artistiche, nel mentre offrono al lettore la base di un certo gusto poetico, pongono in evidenza i limiti della teoria. E sono tali quando lo stesso Quasimodo è decisamente polemico con la poesia dei crepuscolari, dei futuristi e della letteratura dei vociani. Del tutto differente il concetto di poesia di Eugenio Montale che già in quella assegnazione del premio Nobel aveva posto quell’interrogativo: “ma c’è una poesia ancora?” E tuttavia sulla poesia egli scrisse, in un saggio successivo, “se intendiamo per poesia, come molti fanno, un determinato genere letterario, fissato in formule e schemi inderogabili, mi pare certo che la situazione della poesia sia in una gran brutta situazione. Ma se facciamo lo sforzo di delimitare, di ritagliare un automatico prodursi del “genere” qualche accento di vita e di novità, allora il problema cambia aspetto e di molto”. Con questo egli intendeva, e giustamente, ma il fatto era già stato sottolineato e dal De Sanctis e dal Croce e dal Fubini e dal Flora che è poesia anche la prosa e in questo regnava e regna Alessandro Manzoni, Giovanni Verga, lo stesso Pasolini, Corrado Alvaro, Michele Prisco ed altri ed altri ancora perché la prosa è poesia quando tocca le anime del cuore, il sentimento della vita e l’amore consacrato al raggiungimento di un apice della stessa vita. E in questo concetto fondamentale che è del Montale ma che è anche di altri critici e studiosi che hanno onorato la nostra letteratura non manca il giudizio di Luigi Russo che diceva che la poesia è sempre un fiore che nasce sulla durezza di una roccia.
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