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Piatti di "magro" dal primo "ricettario" occidentale

Piatti di "magro" dal primo "ricettario" occidentale

Piatti di "magro" dal primo "ricettario" occidentale

Mentre l’Antichità greca e romana amava le mescolanze di ingredienti e sapori, e qui piatti che oggi definiremmo “mare e monti”, fino alle mescolanze esplicite di carne e pesce, il Medio Evo cristiano distingue nettamente nel suo calendario gastronomico la carne (a cui con maggiore o minore ampiezza si associano i prodotti di derivazione animale, lardo, burro, latticini e formaggi, uova...) da ciò che carne non è: il pesce in primo luogo (ed animali acquatici che pesci non sono ma ai pesci vengono assimilati, dai castori alle tartarughe) ed i vegetali, istituendo una distinzione fra i giorni di grasso (nei quali è lecito mangiar carne) e quelli di magro (nei quali non lo è), più o meno stretto, che nel cuore del Medio Evo, ma con una stretta controriformistica nei Paesi cattolici per tutto il Cinquecento e fino alla metà del Seicento, giunsero a sfiorare oltre un terzo dei giorni dell’anno: fino a 150 – 160 giorni, “secondo gli usi locali”, ricorda Massimo Montanari: i quaranta giorni della Quaresima; le vigilie di importanti festività; le Quattro Tempora (ovvero i solstizi e gli equinozi); tutti i venerdì, e a lungo anche il mercoledì. Anche se il Cristianesimo non conosceva i minuziosi tabù alimentari degli Ebrei (e poi dei Musulmani, più semplici), avendo presto abbandonato il divieto di mangiare sangue o carni che contenessero ancora sangue, i giorni di astinenza più o meno stretta comportano un regime altrettanto minuzioso, con tutta una serie di varianti legate all’uso locale o di eccezioni per infermi, che coinvolge non solo la cucina e la tavola ma anche gli stessi mercati alimentari. Con un pizzico di esagerazione, e spingendosi fino al paradosso, Erasmo da Rotterdam poteva lamentarsi, nel 1532, che “per quanto riguarda la scelta degli alimenti, il nostro fardello è ben più pesante di quanto non lo fu per gli ebrei! [la minuscola è di Erasmo] Costoro avevano il diritto di consumare ciò che c’è di meglio fra tutte le specie di pesci, quadrupedi e volatili. A noi tutte le carni sono proibite per buona parte dell’anno”. La seconda parte della conclusione è vera, la prima non lo è. Comunque, la tavola cristiana, oltre ad adeguarsi alla scansione fra tempo sacro e tempo profano, è profondamente influenzata dal “divorzio” fra carni e pesci, sì da non ammetterne più, nei fatti, non nelle norme, la compresenza in un medesimo piatto o nello stesso pasto. Con l’eccezione di due derivati animali che in alcuni luoghi, specie dove l’ulivo non cresceva, ed in alcuni tempi, furono assimilati ai vegetali e consentiti come grassi di frittura o condimenti “di magro”, il lardo e il burro, o di leganti come le uova, che compaiono anche in ricette “di mare”, ma inadatte ai giorni di magro stretto. Si sviluppano così due distinte gastronomie, una di grasso ed una di magro, che potremmo anche (non del tutto precisamente) definire di carne e di pesce, che ad un certo punto vedranno la presenza di piatti simili nell’aspetto e nei metodi di preparazioni, che a volte portano addirittura lo stesso nome, ma differiscono radicalmente negli ingredienti e nel sapore. Un esempio per tutti è il biancomangiare, il piatto universale del Medio Evo, che vede anche varianti di magro con polpa di pesce in luogo di quella di pollo e latte di mandorla in luogo di quelli di capra, pecora o mucca. Già nel VI secolo Antimo, medico bizantino caduto in disgrazia a Costantinopoli e passato in Occidente, prima alla corte dei Goti, quindi a quella dei Franchi, al cui re Teodorico indirizza l’epistola De observatione ciborum, prezioso documento, quasi unico a riportare una bella selezione di “ricette” nel lungo iato fra Apicio e i primi manoscritti medievali di XII – XIII secolo, individua due distinte cucine, anche se privilegia i piatti di carne (vive tra i Franchi...). La platessa e la sogliola “sono buone e adatte lesse e [condite] con sale e olio, e si addicono anche agli infermi”. Le anguille “arrostite, tagliate a pezzi e cotte allo spiedo”, spennellate di salamoia, sono migliori di quelle lesse. I “trucanti” (i nostri avannotti o bianchetto) arrostiti o fritti, fanno passare la nausea. Molluschi e ostriche, purché freschissimi, si possono lessare o o arrostire nei loro gusci. La cicoria può essere mangiata sia cruda che lessa. Le pastinache “sono buone lessate bene e mangiate con sale ed olio; se fritte, devono prima essere sbollentate”. Gli asparagi “non devono essere lessati troppo a lungo, e devono essere mangiati con sale e olio”. Le fave intere [fresche] cotte bene nella loro salsa, e guarnite con olio, condimenti e sale, sono migliori di quelle spezzate [secche], pesanti per lo stomaco. Le lenticchie, ben lavate, devono essere sottoposte a doppia cottura in acqua bollente; nella seconda cottura si aggiunge all’acqua un po’ di olio di olive acerbe insieme con un cespo di coriandolo fresco con le radici e poco sale; verso fine cottura si aggiunge del sommacco in polvere, si mescola e si toglie la pentola dal fuoco; una volta cotte si servono con poco aceto.
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