“Che pensieri soavi,che speranze, che cori, o Silvia mia!Quale allor ci appariala vita umana e il fato!(Leopardi “A Silvia”) Si è celebrata da poco tempo la giornata del Valentino, dei giovani amori, ma nella poesia di quel “Valentino” è l’eterno momento ed estremo della gioia, della letizia, della vita umana. Così in Dante, in Petrarca, in Foscolo, nel Carducci e in altri; così, per rimanere vicino al nostro poeta del più vicino Novecento, è stato Eugenio Montale; fra i protagonisti della poesia italiana del secolo scorso è certamente Montale quello che ha sperimentato un influsso più profondo e durevole tra i poeti del suo tempo. Se Ungaretti ha operato una versificazione verticale e, più volte, frantumata, al tempo stesso ha operato un modello metrico che, scendendo dal Pascoli ed anche dal D’Annunzio, per decenni ha ispirato i poeti del secolo scorso, se Quasimodo ha guardato alla poesia da una angolazione del fascino magnogreco, anche come traduttore preciso, legato al verso ellenico e fuso nella Sicilia che fu nel canto di Omero e che nei secoli è stato di altri popoli e lui, Quasimodo, l’ha sentita come eternamente sua, Montale, pur non operando rotture rispetto ai grandi poeti che lo hanno nel tempo preceduto, ha, tuttavia, da Maestro del verso, soprattutto nelle “occasioni” dato alla lirica italiana una visione assolutamente nuova dello stato dello stesso vivere umano, terreno, decisivo, che lo ha portato più volte alla poesia non solo pascoliana ma leopardiana per quel senso del costante dubbio che prende il cuore dell’uomo e per quel senso del morire che conduce gli esseri umani al “male del vivere”. Di qui parte quel nucleo di liriche che prende il nome di “Satura” (1962-1970) soprattutto per quella parte latinamente detta Xenia (II) del tutto destinato all’amore della moglie, quasi una forma di contrasto al “Valentino” del tempo e portato alla memoria di lei, non come bufera dell’essere, ma come eterno amore che vince la diva “pallida e muta”. La moglie è scomparsa, ma lui non la sente e non la vede come chiusa alla vita ma quale in un perenne e inquietante divenire. Scrive il critico Sergio Solmi nel suo “Scrittore negli anni” (Milano, Il Saggiatore, 1963) che la prima riflessione sulla poesia di Montale concerne la superiore maturità dell’artista. Certamente al numero 5 di Xenia II si arriva dalla freschezza di alcune liriche del volume “Le occasioni” ed anche della “Bufera ed altro” e se non c’è la freschezza di quelle liriche c’è soprattutto il sentimento dell’amore verso la moglie a cominciare dall’inizio “Ho sceso dandoti il braccio”. È necessario qui riflettere sull’ultimo verso della lirica numero 13 (Xenia I) che chiude una triste memoria sulla morte di un fratello alla moglie: “Ma è possibile lo sai, amare un’ombra, ombra di noi stessi”. Ed ora che la sua compagna di vita non è più fra i viventi e fondamentalmente è anche un’ombra, l’ascolto nella memoria è il solo modo di ricordarla e umanamente vederla. Lo dice bene il verso “Il conto del telefono è s’è ridotto a ben poco” versi che preparano la più bella delle liriche della raccolta che comincia come è scritto: “Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale” ed ora che ella non c’è più è il vuoto ad ogni scalino. L’attacco poetico della lirica ricorda quello della poesia “A Silvia” del Leopardi ed anche al passato all’inizio della canzone petrarchesca “A Laura” nel ricordo dei fiori che scendevano sull’angelico seno, lei vicina al fiume Sorga. Montale, al terzo verso, descrive un passato che è ormai un vuoto dell’anima; un viaggio nella vita che è priva della stessa vita. “Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino. Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio. Eugenio Montale Il mio dura tuttora, né più mi occorrono le coincidenze, le prenotazioni, le trappole, gli scorni di chi crede che la realtà sia quella che si vede. Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio non già perché con quattr’occhi forse si vede di più. Con te le ho scese perché sapevo che di noi due le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate, erano le tue”. Una poesia che è al tempo stesso elegia ed idillio; elegia per quel ricordo o memoria della compagna della vita che ormai è in quell’atmosfera di credenza che per alcuni è fede e per altri è trascendenza. Ma anche di idillio per quel malinconico sorriso verso pupille che non vedono più, ma che erano, per il poeta, marito, non offuscate e superiori alle sue. Una lirica che è al tempo stesso, nella sua estrema umanità e felicità di versi, nella varietà della parola che è al tempo stesso metrica tanto vicina al parlare umano quanto lontana verso una trascendenza di un compiuto risvolto della vita nella bufera che avvolge gli uomini, quel che rimane di questo gioiello della poesia montaliana, nel tempo in cui si celebra il sentimento degli affetti fra giovani, rimane un concetto fondamentale che è l’amore il sentimento dell’uomo verso la donna e viceversa quando è compatto e compiuto non è soltanto fra i giovani ma sempre, anche nei non più giovani perché proprio il sentimento dell’anima, che è giovinezza dello spirito, è anche giovinezza degli anni che sono trascorsi: per questo noi oggi abbiamo ricordato questa lirica di Montale così raffinata nella sua semplicità e così semplice nella sua artistica maturità. Il tempo non esiste se esiste nel cuore dell’uomo.
Commentiscrivi/Scopri i commenti
Condividi le tue opinioni su Buonasera24
Resta aggiornato, iscriviti alla nostra newsletter
La società percepisce i contributi di cui al decreto legislativo 15 maggio 2017, n. 70. Indicazione resa ai sensi della lettera f) del comma 2 dell’articolo 5 del medesimo decreto legislativo