No, Nicola Carrino non si macchiò mai di crimini contro la storia della città natale: per quanto sicuramente avesse con essa un rapporto contrastato – simile a quel che si racconta dei “grandi” tarantini del ‘900, Mario Costa e Raffaele Carrieri - non fu lui ad eliminare la fontana ottocentesca di Piazza Fontana per sostituirvi la sua. Negli anni ’80 essa era infatti già un labilissimo ricordo, in quanto detta storica fontana era stata rimossa quasi cento anni prima, e qualche suo lacerto ubicato qui e là nella Città Vecchia. Altrettanto, non fu certo la piazza di Carrino a “svuotare” di vita quel tratto di città-isola, che aveva da tempo patito sia l’inevitabile spostarsi del fulcro verso il diametralmente opposto Borgo umbertino, sia l’evitabile “deportazione” della popolazione, seguita ai tragici crolli degli anni ‘70: la frequentazione di quello spazio, in pessime condizioni manutentive - alcune impietose cartoline lo mostrano chiaramente - era infatti già ridotta all’osso. Tutto questo, insieme a molto altro, è stato documentato dal prof. Lovreglio di fronte ad un attento uditorio, confluito il 18 gennaio presso il “Museo dei tarantini illustri”, luogo di recentissima costituzione (ma di assai lunga realizzazione, risalendone l’idea al Centro Studi Cesare Giulio Viola, dopo il salvataggio in extremis della prima giunta Stefano), al fine di assistere ad un “Omaggio a Carrino” voluto dall’associazione di Storia Patria, presieduta dal prof. Carducci, ed affidato alle cure di Antonio Basile, direttore del Museo etnografico “A. Majorano”, appassionato studioso del tormentato territorio. Evidentemente, questo della scarsa manutenzione di Piazza Fontana è male cronico che attraversa le decadi, se consideriamo che lo zampillio delle acque fu miracolo che si vide solo il giorno dell’inaugurazione dell’opera di Carrino, nonostante il progetto avesse puntato proprio sulla stilizzazione monumentale del tratto finale dell’acquedotto del Trigno, vera ragione della disposizione diagonale della fontana e del “muro d’acciaio”. Tale “male” lo ritroviamo in un accorato articolo del 2018, scritto da Lorenzo Madaro ed illustrato senza sconti dalle foto di Ezia Mitolo, comparso online sull’autorevole rivista “ArtTribune”: non dimentichiamo, infatti, che Nicola Carrino fu ed è artista assai celebre, quindi ciò che lo riguarda trova eco nelle principali pubblicazioni di settore e nel mondo dell’arte in generale. Il che, oltre a indurci all’accortezza se davvero immaginiamo di intervenire sull’opera sua, permette di giustificare pienamente la scelta degli amministratori dell’epoca. Quella cioè di affidare il progetto ad un artista dal grande curriculum, ben al di là delle arcinote contiguità politiche e natali. Del resto, come il presidente del “Gruppo Taranto”, prof. Perrone, potrebbe spiegarvi in dettaglio - quando lo desideriate, mai lo si vide stanco di raccontare l’importante fase storica che ci evitò la perdita dell’intera Città Vecchia – oppure come potreste cogliere intuitivamente, che so, andando banalmente a mangiare un risotto al “Faro”, che ancora sfoggia rime dedicate alla gastronomia locale da Cesare Brandi, la Taranto degli anni ’70 ed ’80 non era scevra di considerazione nazionale e frequentazione culturale: di quella positiva temperie l’operazione urbanistica del Carrino risultò esito consapevole. Ben lungi dal riguardare la mera fontana, posta all’interno di una sorta di cerchio rialzato, resecato da rampe che concretizzano un “salto di quota” deliberatamente finalizzato a compensare alla vista i vuoti architettonici dovuti alla scomparsa di antichi edifici andati perduti alla fine del 1800, l’intervento di Carrino mette la firma sull’intera “piazza con fontana”, immaginata come continuum architettonico in dialogo, direi acceso, col circostante. In questo pienamente realizzando il proprio pensiero artistico-architettonico, costantemente sotteso ad un’arte sicuramente concettuale, pur in quella peculiare, limpida semplicità che ritroviamo al massimo grado nei “costruttivi” della fine degli anni ’60: un prezioso percorso che l’intervento conciso ed efficace di Giulio De Mitri, presidente del CRAC Puglia (unica istituzione stabile dedicata all’arte contemporanea della città), ha delineato, riassumendolo in cinque aspetti fondamentali, partendo dall’assunto che la scultura novecentesca non coincida più con la statuaria, come nella classicità, spingendosi ben oltre. “La scultura come forma”, trascurata da Carrino a vantaggio della “scultura come co struzione e assemblage” modulare, nel senso della “scultura come oggetto”, che in Carrino implica il protagonismo dei materiali poveri e di riciclo, ovvero, nel caso delle grandi sculture progettate, materie prime comuni nei luoghi di ubicazione, quali pietra arenaria, ferro corten o acciaio inox. Il quarto aspetto attiene alla “scultura come installazione spaziale e come ambiente”. In questa definizione, la scultura è parte integrante del circostante: spazi interni o spazi esterni sono riproposti da soli o con l’inserimento di sculture. Ultima riflessione, “la scultura come corpo vivente”, che esiste in Carrino esclusivamente nel senso della “vitalità” che la trasformabilità delle strutture modulari, accuratamente “calcolate” nelle dimensioni e nel numero (dato emerso nell’intervento del giornalista Silvano Trevisani), consentono al lavoro artistico. Ed è sempre grazie a De Mitri ed a Trevisani che scopriamo, direttamente dalle parole dell’artista, come queste concezioni siano comunque confluite, più o meno felicemente, nel progetto di Piazza Fontana, unica espressione artistica contemporanea che la città di Taranto possa vantare, insieme alla Concattedrale. Dice infatti Carrino: “La scultura è la forma del luogo, anzi il luogo stesso. Sono i principi che unitariamente richiamano e governano la mia visione del fare, produrre, pensare, comunicare l’arte. La scultura non è produzione di oggetti, ma comunicazione di pensiero”. Ed ancora: “Il progetto definitivo di riassetto urbano di Piazza Fontana è composto da moduli in acciaio inox, in riferimento alla città come produttrice dell’acciaio… composto da 36 moduli a forma di L, che compongono una parete semi-finita a memoria delle antiche mura aragonesi sussistenti sulla piazza e abbattute all’inizio del passato secolo”. Ma non senza infine riconoscere che “si trattava di un progetto culturale che si innestava in un progetto di rinascita della Città Vecchia. Il progetto doveva essere più ampio: rivitalizzare, mettendo in atto un nuovo sistema di presenze nell’ambito ristretto del contesto… Se ci fosse quel minimo di manutenzione che desse dignità alla città stessa... un intervento, una volta effettuato, dev’essere conservato”. Ogni elemento dell’elaborazione di Carrino, divenuta poi l’effettiva Piazza Fontana, ha quindi una precisa ragion d’essere: il recupero di parte della fontana ottocentesca, il richiamo diagonale al percorso del Trigno che vi porta l’acqua, i moduli – sua celeberrima cifra creativa – rimandano alle mura, le altezze nascondono i vuoti delle distruzioni patite dal contesto. Il tutto è l’opera, l’opera è l’idea: “la fontana” contempla la piazza ed insieme ne è contemplata. Ed all’epoca, certamente, Taranto era “la città dell’acciaio” e dei denari che ne venivano: se c’è un luogo del pianeta in cui la ‘cancel culture’ fa davvero ridere, questo è l’Italia. Cosa è quindi mancato? Come a Corviale, è venuta meno proprio la rivitalizzazione sociale che doveva essere ragione ed insieme sostegno per operazioni architettoniche e culturali euristiche, rivelatrici della dialettica, finanche della conflittualità, fra contemporaneo ed antico. A Taranto come a Roma. Ma non solo, citando proprio Carrino, è mancata anche l’assai più banale manutenzione, o meglio “conservazione” dell’opera d’arte: l’ordine, la pulizia, il nitore indispensabili alla fruizione di un’arte che non è immediata, agevole, istintiva come quella tradizionale, bensì concettuale. È possibile apprezzare un bel ritratto, anche se lordato… ma quando parole decisive di un testo risultano illeggibili, nessuno potrà né vorrà più soffermarvisi. In questi anni abbiamo sentito parlare di pinacoteche e biennali: consta, anche personalmente, che non vi sia grande interesse per acquisire nuove opere e spazi espositivi confacenti ai desideri. Sono scelte insindacabili di indirizzo politico, poco da aggiungere. Ma prima di metter mano a quelle già esistenti, scaturite dal lavoro attento ed argomentato di grandi personalità, magari mutilandole o mutandole in aspetti tutti egualmente necessari, credo sarebbe doveroso darsi e dare la possibilità alla popolazione di vedere finalmente zampillare l’acqua, scintillare gli acciai, biancheggiare le pietre della piazza-scultura, così come l’artista le aveva offerte ai suoi concittadini: dalle cartoline degli anni ’70 all’articolo di ArtTribune del 2018, Piazza Fontana è rimasta un angolo negletto e maltenuto di Taranto. Siamo sicuri che l’intervento ibrido all’ordine del giorno, un po’ Carrino un po’ quel che capita, basterebbe a renderlo migliore, in assenza di adeguata manutenzione? Storia e cronaca ci dicono l’opposto. Conserviamo bene quel che abbiamo, intanto: se ciò nonostante dovesse l’esistente sembrare ancora inadeguato ai tempi ed agli scopi (quali?), si abbia il coraggio di progettare qualcosa di completamente diverso, non posticcio bensì organico, coerente e giustificato almeno quanto ciò che si vuole sostituire. In tal caso, forse, Nicola Carrino potrebbe persino perdonare a Taranto l’ennesima incomprensione.
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