Quel sacrificio, per chi lo fece sulla spinta di ideali fu inutile, ancorché nobile. Oggi, non siamo un popolo né lo diventammo allora. *** In occasione dei primi centocinquant’anni dell’Unità d’Italia, il Corriere della Sera (era marzo 2011) volle dedicare a questo straordinario compleanno del “terzo cinquantenario” alcune pagine intense, che riproponevano un florilegio di liriche e prose a ciò ispirate. Non poteva mancare quella che fu definita la più bella poesia del Risorgimento, “Marzo 1821” di Alessandro Manzoni, autentico ed ispirato grido di amore per l’Italia di allora e di sempre, poesia che, con altre, mandavamo un tempo regolarmente a memoria, così come “All’Italia” di Giacomo Leopardi, o, ancora, la riflessione foscoliana sulla servitù del nostro Paese da “Le ultime lettere di Jacopo Ortis” ed ancora… il racconto virgiliano sulla fondazione di Roma e l’attesa di Machiavelli per un principe che fosse “redentore” fino al “De vulgari eloquentia” profezia dantesca dell’Italia unita. Eppure, già negli anni ‘60 dell’Ottocento (atti parlamentari, sedute del 2 dicembre 1861) il deputato milanese Giuseppe Ferrari aveva chiaro tutto: soprattutto che fosse un errore stendere un velo di silenzio sulle nefandezze causate dalla vera e propria guerra civile e dalle azioni militari che furono compiute e che altrettanto errore fu imporre lo Stato Sabaudo con la forza e la violenza (i plebisciti furono un primo esperimento di brogli elettorali in un clima particolare… che non garantiva neutralità). Altrettanto errore infine liquidare il brigantaggio, spesso coincidente con il patriottismo filoborbonico, con una questione di mero ordine pubblico. Difendere il Risorgimento tutto intero, così come ci è stato scolasticamente tramandato, non mi pare più possibile, all’indomani delle tante ricerche ascrivibili al revisionismo risorgimentale e, comunque, ad una meno acritica accettazione di una “positività” che è da ritenere tale, con un “malgrado” istituzionalizzato, come “dogma” di una fede laica sull’Italia che sarebbe venuta e ci è stata consegnata. Innanzitutto, fuori dai circuiti - pur esaltanti, se presi a sé - della letteratura patriottica, abbiamo verificato la “non qualità” dell’Italia che ne è derivata: matrigna e capace, come si dice dalle nostre parti, di “fare figli e figliastri”, con scelte di politica economica assolutamente scompensate a favore del Nord e ormai scopertamente antimeridionali (vedasi “l’autonomia differenziata” che allettava trasversalmente Zaia e Bonaccini, Destra e Sinistra, con il cuore al Nord). Quanto a definire “grandi della patria” indiscriminatamente tutti i protagonisti, ci andrei più cauto, visto che basterebbe un florilegio dei loro pensieri e delle loro considerazioni sul nostro Sud (allora Regno delle due Sicilie), per comprendere che l’approccio fu non di liberazione, ma di “conquista”, realizzata attraverso una guerra più che feroce e “non dichiarata”, che si poneva fuori dal diritto internazionale (un parallelo è possibile con riferimento ad un altro “Stato sovrano” - l’Ucraina - aggredita dalla Russia) e teatro di eccidi, ormai più che documentati, che nemmeno le SS realizzarono nel nostro Paese e che disinvoltamente la storiografia risorgimentale, quella delle cattedre universitarie, ha rimosso, perché non in sintonia con la vena ispirativa “agiografica” imperante nella retorica patriottarda dei tempi passati con profondi lasciti fino ai nostri tempi. Nessun cenno, manco a dirlo, alla massoneria internazionale, al suo sostegno; come, d’altra parte, lo scontato e radicato disprezzo per i Borbone, fatti passare per “negazione di Dio” nella considerazione internazionale (altra favoletta, su cui lo stesso Gladstone ritornerà per ammettere che era stata tutta un’invenzione), mentre una più attenta valutazione storica intorno alla vita degli Stati preunitari ci porterebbe immediatamente a concludere che proprio i Borbone, pur legati troppo al passato e alla salvaguardia del Regno che li faceva diffidenti dai principi liberali, amministrarono meglio di tutti l’allora Mezzogiorno d’Italia, al punto che nella confluenza dal 1861 nello Stato unitario lo Stato che, sostanzialmente, salvò il Piemonte dal “fallimento” (dovuto soprattutto agli esborsi spaventosi, causati dalle guerre d’indipendenza), fu proprio il Regno delle due Sicilie. Che la storia si faccia anche “fra delusioni e contrasti” è considerazione che non si può non condividere, ma che le delusioni - allora ed ora - siano tutte a nostro discapito, non lo si può più accettare né in riferimento a quegli anni (anni ‘60 - fine secolo Ottocento), né in riferimento agli anni della Repubblica, prima o seconda che sia (mi riferisco all’uso disinvolto di fondi del piano Marshall e a quelli del PNRR, in stragrande maggioranza diretta al Nord d’Italia). Quelli che generosamente si archiviano come “pecche” ed “errori” furono calcoli non occasionali, scientificamente perpetrati da allora e fino ai giorni nostri. Chi scrive, fino a non molti anni fa, provava emozioni indicibili al solo sentire l’inno nazionale o il solo vedere la bandiera logora e sgualcita sugli edifici pubblici, tant’è che nella scuola che dirigevo la bandiera è stata sempre esposta nella migliore delle sue forme e dei suoi colori. Da qualche tempo, soprattutto dopo una serie di anni (quelli del pensionamento) dedicati - fra le altre letture - alla storia del Risorgimento nazionale, e sulla scia di un insegnamento - quello di Michele Pierri - volto a scovare “la realtà nei mezzi” più che nei fini, non ho più potuto condividere la storia scritta dai vincitori, così come ho scoperto che le cattedre di Storia del Risorgimento dovevano essere appannaggio dei fedeli alla leggenda tramandata e che gli stessi dovevano fingere di non sapere. Non sapere, innanzitutto, di essere “meridionali”, il che significa essere e percepire e percepirsi “diversi”, se non “inferiori”; non sapere che i piemontesi al Sud fecero quello che i nazisti fecero a Marzabotto, cancellando paesi interi, pressoché come gli americani in Iraq, non sapere che gli eroi del Risorgimento ed i loro comandanti militari, durante le rappresaglie, ritenevano di godere di un diritto allo stupro sulle donne meridionali (più o meno come i serbi nei Balcani o i marocchini francesi in Ciociaria). Non sapere che, in nome di un fine eccelso - l’Unità d’Italia - i bersaglieri e i sabaudi ebbero titolo al saccheggio delle città meridionali e praticarono addirittura la tortura. Non sapere che tanti, troppi furono incarcerati senza processo e senza sentenza, solo perché difendevano la loro “patria”, quella che quanti aspergono incenso su questa storia hanno rimosso completamente. All’inverso è stato più facile credere che i briganti fossero solo briganti e non patrioti impegnati in guerra per difendere, oltre una Patria, i propri paesi, le loro piccole patrie. Così come non avevamo mai saputo di “fosse comuni”, piene di centinaia di meridionali e igienizzate con la “pietosa” calce, o dell’assedio di Gaeta, su cui piovvero almeno 100.000 bombe. Insomma, nessuno, nemmeno in quegli anni, si accorse che eravamo entrati nel “Paradiso” dei Savoia, dopo l’ “inferno” dei Borboni, durante il cui Regno anche i meno abbienti vivevano una vita accettabile e non conoscevano l’“emigrazione”. Come ricordava Camilleri, la leva obbligatoria (non conosciuta dai meridionali e non la si consideri “educativa”!) di 8 anni privava delle braccia più forti, quelle giovanili, le famiglie, tant’è che le donne vestivano a lutto per salutare i propri congiunti che partivano. Altro regalo dell’Unità d’Italia, furono le “terre” che, invece di andare ai contadini, furono acquistate dai baroni e dalla borghesia terriera, alleata dei Savoia, così come la mafia, che scortò Garibaldi a Napoli e fu solido puntello dello Stato. Ed infine, l’emigrazione, che il Nord già conosceva e dismise, noi non conoscevamo e ci fu regalata dal nuovo Stato, dalla nuova Patria. Se questo era il “Risorgimento” che s’annunciava… E veniamo alla modernità (di qui la coerenza fra Sabaudi e Italia Repubblicana): il Sud, ogni anno, perde una sessantina di miliardi, che prendono la strada del Nord e, conti pubblici territoriali alla mano, superano gli 800 miliardi rubati al Mezzogiorno dal Nord onnivoro. Oltre questo, si pensi al PNRR, che dovrebbe colmare il gap fra Sud e Nord del Paese e che l’Italia ha ricevuto in una somma che, proprio per le problematiche del Mezzogiorno (reddito, disoccupazione), si raddoppia e giunge a circa 200 miliardi di euro: ebbene, il 70% all’incirca andrà al Nord. Se si continua a ritenere questo un Carrieri: «Quelli che generosamente si archiviano come “pecche” ed “errori” furono calcoli non occasionali, scientificamente perpetrati da allora e fino ai giorni nostri» miracolo conseguente agli ideali risorgimentali di un’Italia davvero unita, vuol dire che è, finora, ho capito ben poco della vita di questo Paese, che, a mio avviso, non ci qualifica “popolo” unito ed a eguale titolo a tutte le latitudini. Basterebbe, per concludere, un riferimento allo svuotamento demografico del nostro Mezzogiorno (Basilicata, Calabria, Sicilia, Puglia, Taranto), causato dalla mancanza di opportunità, tutte fiorenti al Nord, per intervento dello Stato o dei privati garantiti da un sistema di infrastrutture che non ha badato tra “necessario” e “superfluo”, mentre al Sud persino il necessario non ha la garanzia di essere considerato. Basti pensare che di “ponte sullo stretto” si parla dal 1864 e temo se ne parlerà ancora, compensando comunque chi non ha ancora l’incarico di realizzarlo, ovvero gli amici degli amici, per l’incarico di progettazione. Eugenio Scalfari: “L’unità d’Italia? Un’occupazione piemontese. Gli italiani detestavano lo Stato perché i piemontesi lo invasero. Il Regno delle due Sicilie era molto più ricco e potente del Piemonte. L’unità è stata fatta da persone che parlavano francese”. Massimo D’Azeglio: “Napoli è come il vaiolo. Sono italiani, ma non vogliono esserlo”. Nino Bixio: “Un paese - il Sud - che bisognerebbe distruggere e gli abitanti mandarli in Africa a farsi civili”. Carlo Nievo: “Quei terroni barbari da abbruciare vivi… Gli abitanti sudici, fiacchi, stupidi e per di più con un dialetto che muove a nausea tanto è sdolcinato”. Garibaldi: “Ebbene essi maledicono oggi coloro, che li sottrassero dal giogo di un dispotismo, che almeno non li condannava all’inedia, per rigettarli sotto un dispotismo più orrido, assai più degradante”. “Non rifarei oggi la via dell’Italia meridionale, temendo di esservi preso a sassate da popoli che mi tengono complice della disprezzabile génia che disgraziatamente regge l’Italia”.
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