Sarà presentato venerdì, 18 novembre, alle ore 17,30, al Mudit (il Museo degli Illustri Tarantini in via Plateja, 51), l’ultima fatica letteraria di Josè Minervini dal titolo “Voce dei verbi”. L’appuntamento si inserisce nell’ambito della rassegna “Autori al Mudit”. Con l’autrice dialogherà Francesca Poretti. Di seguito la recensione al libro di Antonio Liuzzi. * * * * * * * “Voce dei verbi”, editrice Scorpione, è l’ultima silloge, in ordine di tempo, di poesie composte dalla poetessa José Minervini, frutto maturo e delicato della sua fertile e preziosa vena poetica. In copertina presenta, “Libertà”, olio su tela di L.Barroc (Lidia Barchiesi Roca) La raccolta comprende, com’è scritto nella premessa, ottantotto liriche, scelte fra quelle composte dagli anni 80 ad oggi. Con felice intuizione la Minervini ha assimilato il numero delle composizioni agli ottantotto tasti, fra bianchi e neri, che formano la tastiera di un pianoforte. L’accostamento è confermato dalla partitura poetica dei componimenti sotto la voce di sette verbi che rinviano alle sette note musicali. E la danza della vita inizia dalle “Toccate e fughe” che scandiscono il fuggire e il tornare, nella prima sezione dedicata al verbo fuggire, all’oscillare continuo che non appaga l’anima instabile: “Ho già la stanchezza del ritorno/ ancor prima di iniziare/la fuga in re maggiore……Così fra giri di danza turbinosa/e moti ondosi trascorre la mia vita”. ( p.28). Strutturalmente i componimenti si dispongono in un percorso circolare che si apre e si chiude, come la stessa autrice afferma, nel nome della madre. È la figura carismatica, il nume tutelare dei suoi affetti più delicati e profondi. La Musa ispiratrice della sua poesia, ma ancor più il luminoso esempio di una creatura che non solo nel suo grembo le ha donato la vita, ma con i suoi pensieri ha “forgiato l’anima e la mente” e con le sue parole “ ha disegnato il suo cuore”. Il verbo “amare” non etichetta tematicamente, nella silloge, un gruppo di poesie ma costituisce l’asse portante dell’intera raccolta. Nelle liriche iniziali che preludono alle voci dei successivi sette verbi, oltre che sull’amore materno l’accento batte fortemente sull’amore e la ricerca della “parola“, non intesa nelle sua generica e prosaica accettazione, ma nel suo significato più alto e nobile,come divina sostanza della poesia. Accanto a José devota fruitrice e custode dell’ amore materno, ecco la Vestale sacerdotessa che custodisce e alimenta il sacro fuoco della parola poetica. Si potrebbe ben apporre in esergo alle prime liriche (3-20) che introducono i sette verbi l’evangelica espressione “In principio erat verbum”. Nei versi dell’invocazione (p.6), con un efficace distinguo polisemico si rivolge al Verbum e al Logos perché confortino l’anima sua col dono della parola sublime, della poesia, parola che arde come il roveto sull’Oreb, come le lingue del fuoco pentecostale, e ristorino l’anima sua come la luce dell’ aurora: “Signore Iddio che sei Parola, / Verbum che si fa carne,/Logos di vita e poesia,…/Scendi dallo sconfinato soglio / su di me, in forma di parola,/ bruciami il cuore,/donami la luce del tuo fuoco,…../ fammi tempio, parola,/ trasfondi te nelle mie vene/ e così io di te trasfusa,/ da te trasverberata,/ sia icona, sguardo, parola/ pentecostale di passione:/ puro fuoco.” E ancora…”Sbroglia il mio enigma./ Dissipa le tenebre./Trasforma la mia notte fonda/in rinnovata aurora”. In questi versi dal ritmo concitato si coglie il travaglio di un’attesa sofferta che richiama alla mente la mistica atmosfera de “el cantico espiritual” di san Juan de la Cruz. Poetare è passione sublime che comporta il rischio del calvario. Ma è anche consolazione seppur breve che dura quanto il lampo improvviso del fugace passaggio della redolente pantera, che lascia il suo profumo (della poesia), come scrisse il divino poeta Dante, teorizzando sull’ eccellenza della lingua poetica. Nei sentimenti della Minervini si coglie una disposizione oblativa della sua parola poetica, tesa a cercare spazi di intesa e di condivisione con le persone a lei care e con i lettori. La finezza psicologica con cui cesella i suoi versi, sovente intessuti di immagini classiche ben integrate col tessuto di un moderno linguaggio ora delicato, ora realisticamente più crudo, suscita nel lettore risonanze di remote memorie. Si leggano le liriche: “Lo spigolo di cristallo”,”Dai Campi Elisi della memoria 1*”, “L’ora del crepuscolo”. Il clima d’amore in cui ha vissuto gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza sono il serbatoio da cui attinge le energie creative per esorcizzare le delusioni della vita. Da ciò l’ottimistica convinzione che sia sempre possibile un dialogo. “Anche la pietra ha un’ anima./ Da pietra su pietra in attrito,/con pazienza e fatica,/ si sprigiona l ‘attesa favilla./ Nonostante sia parva,/ io spero secondi gran fiamma./ Anche la pietra ha un’ anima,/ una luce, un lampo di vita”. Tuttavia non mancano i momenti di amara malinconia. “Io che a tutti ho dedicato un verso,/… io che ho fatto dono del mio tempo/ tradotto in parola di poesia, /io non ho avuto un verso. È muto/il tasto di quella sola nota” (Lo spigolo di cristallo - 4). È la condizione del poeta di cui Alfonso Gatto aveva scritto: “Nessuno saprà mai quanto un poeta speri e disperi della sua bellezza, della sua vanità, della sua forza, della sua simpatia”. La nostra poetessa conosce il dolore che prova il cuore ferito, ma possiede anche in sé la forza e il segreto per rigenerarsi nel logorante svolgersi della vita. “Ma se l’amore è luce,/oh, ritorni quel devastante sole/ che mi faceva girasole e spiga,/ ritorni quel dolore! ,,,. ” Io voglio la parola/ per soffiare sul fuoco/ della saggia follia”. Tenendosi saldamente nelle mani, come novella Arianna, quel filo rosso del verbo amare inteso nella sua ancestrale valenza, la Minervivi si dispone all’ascolto della voce di quei verbi che nella scala valoriale delle attività umane si coniugano nelle fasi della vita interiore e in quella pratica. Tematicamente sono sette verbi che si possono dividere in tre gruppi: di movimento (fuggire e finire), di riflessione (ricordare e contemplare) di operosità (leggere scrivere e lavorare). Nelle loro voci si dispiega lo scorrere e il senso della vita quotidiana di José Minervini: le sue ideali evasioni, le sue ansie, i suoi ricordi, il recupero dei suoi affetti più cari, le sue emozioni, i suoi sogni, le sue letture, i gesti e gli incontri nella quotidianità della sua vita sodale e professionale. Dal verbo “fuggire”, una voce invisibile sembra avvertirci che, “Dal tempo non si fugge via./ Gli anni si aggiungono agli anni/ come grani veloci di un rosario./Un rosario con i suoi misteri./ Ricordare è pregare:/ lo stile perfetto,/ mamma/ della tua poesia”. Il verbo “ricordare” è lo scrigno degli affetti più cari avvolti da un velo di malinconia, ma al tempo stesso accarezzati con infinita tenerezza. Ricordare vuol dire continuare un colloquio mai interrotto, col cuore e con la mente. Dalle immagini sbiadite e ingiallite dal tempo, fissate da un lampo, “Forse la poesia, voce infantile nel ciclone,/ invano soffocata da turbini e procelle,/ha trascinato dal buio la memoria/di sorrisi muti, passi immobili ed eterni”. Se nella struttura circolare dell’intera raccolta la figura della madre è alpha e omega e congiunge l’inizio e la fine, nella voce del verbo “ricordare” rivive la figura del padre, in un ideale colloquio in cui si realizza foscolianamente una commovente “corrispondenza d’amorosi sensi”. José Minervini è una persona fermamente credente, ma la sua fede non contempla l’eternità dell’anima in una dimensione ultraterrena, ma nella continuità di un rapporto che il ricordo tiene vivo e la poesia eterna. “Chi siamo noi senza la fede nel ricordo?”( Nei Campi Elisi della memoria 1*) Dal ricordo riemergono le indimenticabili figure dei nonni, nel ricordo imperituro e quotidiano rivive la figura del padre, al quale è dedicata una corona di dodici bellissime e toccanti liriche dal titolo”Una corona per papà”. Costituiscono un poemetto dai toni elegiaci, un atto di fede e di amore filiale in cui ora con accenti accorati, ora consolatori, scorrono i ricordi delle azioni di un uomo straordinario, le premure e le attenzioni di un padre affettuoso. Due versi colti da una poesia del poeta Camillo Sbarbaro, dedicati al padre, posti qui in esergo e poi scanditi e replicati più volte nella prima lirica, esprimono la pienezza di un sentimento d’amore profondo per una figura in cui i valori dell’umanità e della paternità si sono mirabilmente integrati. “Padre, se anche tu non fossi il mio padre,/ per te stesso egualmente t’amerei...”. In una dimensione più intima che ben si accorderebbe con l’indole dolce e delicata della Minervini potremmo citare due versi dolcissimi della poetessa Maria Luisa Spaziani: “Papà, radice e luce, portami ancora per mano/ nell’ ottobre dorato del primo giorno di scuola”. Accanto al fluire e scorrere dei ricordi felici c’è anche il fiume del dolore e della sofferenza in cui pian piano declinò la vita di papà Michele. La poetessa rievoca quei tragici momenti col cuore straziato. È stata un’ èindimenticabile Via Crucis. “La tua morte m’ha strappato la carne,/m’ha amputata. Sono gambe all’aria, / sdradicata come una pianta/ con tutti i fiori a terra”. Quanto grande è un bene tanto più grande è il dolore della sua perdita. Sempre l’amore è il volano nelle liriche riferite alla voce dei verbi “finire” e “contemplare”. “Finché amo, ho parole. Sono salva./Ecco perché per sempre devo amare: / perché non posso vivere senza le parole”. Alla voce dei verbi “leggere” e “lavorare” appartengono le liriche ispirate dalle letture di argomento letterario e agli impegni professionali. Le liriche finali offrono in forma ora metaforica, ora esplicita i temi che attendono l’attenzione della poesia e dei poeti. Scrisse padre Turoldo: “Per sapere di cosa il mondo patisce bisogna interrogare i poeti: al di là di ogni personalismo, sono i poeti le antenne tese sul mondo, giorno e notte”. Anche José Minervini è consapevole di questa missione e di quanto sia doloroso assolverla, “Quanto dolore per un verso solo/ e la lima sulla carne viva/ del cuore. Ahi che dolore!/ La fatica del poeta/ la conosce la formica./Il poeta è la formica/ che trascina chicchi e pene./ Ah che fatica la parola,/ spiga di grano, radice di seme”. Ringraziamo José Minervini per questa sua ultima opera poetica, nella quale ha aperto il suo cuore ai ricordi per richiamarci al recupero e alla difesa di quei valori senza dei quali l’attuale società rischia non solo la desertificazione della natura ma anche quella dell’anima.
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