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Il ‘500 e l'arte di vivere(a tavola e non solo)

Firenze

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Il Cinquecento è il secolo d’oro della letteratura gastronomica e coquinaria italiana, ma anche, in genere, delle pubblicazioni che affrontano, da diversi punti di vista, l’organizzazione della vita nelle società di corte, all’insegna di una raffinatezza che travalica anche il banchetto, che pure è la suprema rappresentazione scenica del potere. Ecco dunque che il Cinquecento codifica le buone maniere con tre autentici best seller, che saranno tradotti e diffusi in tutta l’Europa, ed al quale è toccato in sorte un destino differente. Il primo è il “Libro del Cortegiano” di Baldassarre Castiglione (1528), che Serventi e Sabban definiscono “libro-culto dell’aristocrazia europea”, che delinea la figura del perfetto gentiluomo di corte (solo che poi il termine cortegiano, divenuto ben presto cortigiano, fu usato per definire con sprezzo un servile adulatore, la “vil razza dannata” del Rigoletto verdiano, libretto di Francesco Maria Piave tratto da un dramma di Victor Hugo); segue (1574) il manuale in forma di dialogo di Stefano Guazzo sulla “Civil conversazione”, che ebbe straordinario successo in Italia, Francia, Inghilterra, Germania; fra i due si situa, apparso postumo nel 1558, il “Galateo” di monsignor Giovanni della Casa, che ebbe tale risonanza e diffusione che da allora per antonomasia designa qualsiasi trattato di buone maniere ma anche la buona educazione nel suo complesso. Sotto forma di dialogo, il Galateo ammaestra al rispetto dell’etichetta, senza la tensione al miglioramento che era nel Cortegiano. Ma i tempi sono cambiati, nel giro di pochi anni, ombre cupe si profilano sull’orizzonte italiano. Intellettuale di rango, della Casa è tutt’altro che un innocuo estensore di un ammaestramento a ben comportarsi, come farebbe pensare la sua opera più nota: fu tra gli organizzatori del Concilio di Trento, istruì come nunzio apostolico a Venezia processi dell’Inquisizione, compilò un catalogo dei libri proibiti e, dopo essere caduto in disgrazia, tornò brevemente in auge nel 1554 come Segretario di Stato della Santa Sede (morì nel 1556). Chiaramente, il saper viver cinquecentesco non può prescindere dal saper ben comportarsi a tavola, vero teatro del mondo. Come teatrale è il banchetto, fra le esibizioni dei trincianti all’italiana (ovvero in aria, non coi cibi da trinciare poggiati su un piatto...), la cui arte viene codificata in numerosi trattati, la regìa affidata a grandi artisti (letterati, poeti, pittori, architetti...), le vere e proprie rappresentazioni teatrali e a ballo che intervallavano il succedersi dei servizi di credenza e dei sevizi di cucina. E poi c’erano i trattati gastronomici e culinari, e quelli che univano arte della tavola ed arte della cucina, come il già citato testo di Messisbugo (1549), “La singolar dottrina” di Domenico Romoli detto il Panonto (poi il Panunto, un soprannome che per metonimia passò a designare non solo il libro in sé ma, specie presso il popolino romano, qualsiasi libro di mirabilie di scarsa attendibilità), apparsa nel 1560, o la summa della gastronomia rinascimentale, l’insuperabile e definitiva “Opera” di Bartolomeo Scappi (1570), corredata oltretutto di meravigliose incisioni. Tardo cinquecentesco è poi il quaderno di ricette, manoscritto ed all’epoca non divulgato, di suor Maria Vittoria della Verde, utilizzato quale manuale di cucina nel monastero di San Tommaso in Perugia, le cui religiose provenivano, come lei, da famiglie della buona società: ricette semplici, allora, senza essere povere (con molte verdure e cereali e molti piatti di pasta, ma anche spezie). Un’altra faccia rispetto allo sfarzo dei trattati degli scalchi e dei cuochi, anche se non si può certo parlare in proposito di cucina popolare. Un esempio è questa ghiotta ricetta di “Strozzapreti con noce”, così battezzati dall’irriverente suora. Si preparano gnocchi facendo cuocere in mezzo litro d’acqua bollente 90 g di pane grattugiato; si dispone a fontana su un piano 300 g di farina, si versa il centro l’impasti pane, si sala a piacere e si lavora l’impasto; se ne ricavano poi cilindretti che saranno tagliati in pezzetti passati sulla grattugia e infarinati leggermente perché non si attacchino gli uni agli altri; nel frattempo si prepara una salsa con 30 g di pane grattugiato e 125 g di gherigli di noci, frullando il tutto ed aggiustando di pepe e un pizzico di chiodi di garofano in polvere. Si cuociono gli gnocchi (che suor Maria chiama ancora “maccaroni”), quando la pasta è cotta si scolano, si aggiunge un mestolo d’acqua di cottura alla salsa di noci, e si serve subito mescolando strozzapreti e salsa. Raffinata la zucca di suor Maria: ridotta in pezzi si fa lessare in acqua salata finché diventa tenera; si scola e si fa rosolare in padella con olio, quindi si aggiungono prezzemolo e basilico spezzettati, chiodi di garofano in polvere, pepe, zafferano (possibilmente in stigmi, come suggeriscono Sabban e Serventi), un po’ di agresto (o di aceto e succo di limone); si aggiusta di sale, si fa addensare un po’ il liquido e si serve.
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