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Nuovi versi dedicati a Pierri negli inediti della Merini

Alda Merini

Alda Merini

“Michele Eravamo due spettri di canto io e Michele. Il lago ci saliva oltre le ginocchia. In breve fummo circondati dai flutti e mentre si agonizzava qualcuno ci rubò lo spavento”. È dedicata al “suo”, al “nostro” Michele Pierri una delle cento poesie inedite che appaiono nel volume freschissimo di stampa per i tipi di Manni. La casa editrice salentina, orfana di Piero, che aveva con Alda Merini un rapporto privilegiato, tale da consentirle di avere in repertorio già otto raccolte della poetessa dei navigli, quasi tutte pubblicate quando era ancora in vita, torna, dopo la pubblicazione del volume di Emanuela Carniti “Alda Merina, mia madre”, a pescare nel vasto mare degli inediti che Alda ha seminato un po’ in ogni dove, tirando fuori “Ogni volta che ti vedo fiorire”. Si tratta di una selezione rigorosa della grande miniera di composizioni che dettava o scriveva per Albero Casiraghy e che lui ha raccolto in oltre vent’anni di assidua frequentazione, di quotidiani colloqui telefonici e poi ha donato alle figlie di Alda. Ma ora ne ha tratto questo volume. Alberto Casiraghy, ben noto agli appassionati di poesia ed editoria, è quel leggendario ideatore dei minuscoli, notissimi libricini “Pulcinoelefante”, pubblicati in poche copie con una macchina a stampa a caratteri mobili, tra i quali apparvero numerosi esemplari dedicati al Alda Marini. Così egli stesso ricorda, nell’introduzione del volume, apparso nella collana “Pretesti” diretta da Anna Grazia D’Oria: “Vanni Scheiwiller diceva che ero il panettiere degli editori, l’unico che stampasse in giornata. E questo era congeniale all’attività poetica della Merini, che era molto orale, un vulcano che sprigionava parole, immagini, aforismi: la misura perfetta per i miei librini di otto pagine, copertina compresa. Ogni sabato mattina prendevo il treno da Osnago per Milano e andavo a trovarla. Le portavo le uova fresche delle mie galline, poi passeggiavamo sul Naviglio e ci fermavamo al bar Charlie, lei prendeva un tè bollente e una Coca Cola ghiacciata. Spesso proprio al tavolino di quel bar, sempre lo stesso, mi dettava, magari anche con sofferenza ma con estrema facilità, versi e aforismi – bagliori, piccole luci che le ttraversavano gli occhi e finivano sul foglio”. “Diceva che era Dio a mandarle quelle parole; in realtà ci lavorava, ci tornava su, tagliava, aggiustava, accettava le correzioni – e quante gliene faceva Maria Corti… Alda magari borbottava, ma poi le riconosceva come giuste”. Ecco: anche queste ultime parole di Casiraghy ci riconciliano un po’ con la verità storica che abbiamo più volte tentato di raccontare, ricordando il ruolo che Maria Corti da una parte e Michele Pierri dall’altra avevano avuto nell’affinamento dei versi magmatici di Alda, destando magari il dissenso di molti presunti esperti. Negli anni di massima creatività di Alda, gli anni Ottanta, ad esempio, apparvero due versioni diverse de “La Terra Santa”, l’acme della sua produzione poetica, che portavano chiari i segni dei due “editing” operati dai due letterati che più di tutti contribuirono alla nascita di una grande poetessa, che tra loro si stimavano moltissimo e che si conoscevano già dagli anni Cinquanta, cioè da molto prima che Michele facesse la conoscenza diretta di Alda. Quella dedicata a Michele, e che abbiamo riportato in apertura, è una delle poesie più belle e immaginifiche della raccolta. In una metafora sintetica ma chiarissima, Alda descrive se stessa e Michele come due “spettri di canto”, ovvero due creature che nella loro diversa esperienza riportano memorie di angosce che le avvicinano alla morte, e che hanno visto salire attorno alla loro unione i flutti delle temperie della vita, di quel lago che potrebbe anche proporre un riferimento visivo del Mar Piccolo che altre volte aveva descritto come fiume, come identificazione geografica, ma che sono poi le tempeste che portarono alla loro agonia, cioè alla morte di Michele e alla sua disperazione per la nuova solitudine. Quel verso finale: “qualcuno ci rubò lo spavento”, chiosa tipica nella strategia compositiva di Alda, sembra ancora una volta, come ampiamente descritto in “Delirio amoroso”, voler addossare a un destino personificato la colpa di quella conclusione della loro storia, comunque inevitabile, come inevitabile era la morte del quasi novantenne Pierri. Dal libro tornano figure proverbiali ormai note, come quella di Titano, uno degli amici raccattati da Alda in Ripa Ticinese, che ha già cantato e che qui ritorna in un racconto un po’ drammatico e un po’ giocoso (“...sulla balera della tua finestra. / Stracciati le vesti e urla, / ti prenderanno per un giudeo / o un buon cattolico. / Ma di’ che i marciapiedi di Milano / vanno lavati, e sarai / immediatamente escluso”). E l’ironia, certo favorita dalla confidenza con Casiraghy, è molto presente in questa raccolta e spesso prende il posto degli appelli drammatici, delle rassegnate introspezioni, che caratterizzavano la produzione precedente. Conclude il libro una sezione dedicata allo stesso Casiraghy, dai toni spesso divertiti, ma nella quale una poesia, “Lettera” che ancora cita Michele. La riportiamo per intera, anche se appare in un certo modo forzata, per gli stimoli che offre: “Caro Alberto, una donna pirata, una donna cattiva mi ha reso così infelice che scaverei sotto ogni piastrella per vedere se c’è sangue. Sono dieci anni che non vedo sangue: ne ho visto tanto, nei parti, sul volto di mio marito, sul volto di Michele. Ho bisogno di vedere sangue perché il sangue è una cosa reale è il principio e la fine della vita, Alberto. Perché la psichiatria sangue non ne vede mai”.
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