Non cuoco, ma neppure trinciante, scalco o maestro di palazzo, e neppure medico, botanico o agronomo, come tutti gli autori che abbiamo finora incontrato (eccezion fatta per Platina, umanista e letterato che però per quel che riguarda le ricette si limita a tradurre in Latino e ricopiare le ricette di Martino da Como) Giacomo Castelvetro ci fornisce preziose indicazioni (talune al limite dell’antropologia) sulla gastronomia e gli usi alimentari (ricette incluse) dell’Italia del tardo Rinascimento, con il suo “Brieve racconto di tutte le radici, di tutte l’erbe e di tutti i frutti, che crudi o cotti in Italia si mangiano”, redatto nel 1614 in più copie manoscritte, ed inviato ad amici e corrispondenti (anche con pleonastici rifacimenti ed aggiunte). Esule a Londra per sfuggire all’Inquisizione, che gli aveva abbruciato vivo un fratello come “eretico relasso” (ovvero eretico, protestante in questo caso, che dopo aver fintamente abiurato l’eresia in essa era ricaduto), dopo aver girovagato per l’Europa, rivestendo anche importanti incarichi diplomatici (anche di spia) ed esser stato maestro d’Italiano di monarchi e futuri monarchi, editore in vari Paesi europee di opere all’Indice, dopo una vita brillante per quanto spericolata, Castelvetro, anziano e pieno d’acciacchi (era nato a Modena nel 1546, morirà in Londra nel 1616), vive gli ultimi anni nell’oblìo, in “solitario tramonto”, come scriverà Luigi Firpo, che editerà a stampa per la prima volta il “Brieve racconto”, e in povertà, anche se negli ultimi due anni sarà ospitato “da un parvenu ricchissimo e influente, il segretario del principe di Galles”. Ai carnivori e per lui ancora rozzi Inglesi, Castelvetro magnifica il vitto vegetale della “civile Italia”, giovevole anche alla salute. Gli asparagi, dice, alcuni li mangiano crudi con sale e pepe, ma Castelvetro li preferisce cotti. In vario modo. Bolliti, infarinati e fritti, e conditi con poco sale, pepe e succo d’arance (amare; altre non ce ne sono). I più grossi possono essere unti d’olio e rigirati in una mistura di sale e pepe, quindi arrostiti su una graticola e mangiati con un po’ di succo d’arancia. I carciofi, specie se piccoli e molto freschi, possono essere mangiati crudi, con un po’ di sale, pepe e formaggio stagionato (alcuni li mangiano senza formaggio, ma secondo Castelvetro sono meno piacevoli); oppure, tagliando il capo del carciofo (dove ci sono le punte aguzze delle foglie) si dà un primo bollo in acqua pura, che si getta; la cottura si completa in brodo di carne grassa di manzo o di cappone; cotti che siano, si servono in un piatto molto fondo, con un poco di quel brodo, formaggio grattugiato e pepe. Ancora, dopo la doppia lessatura, coi carciofi si possono preparare pasticci con ostriche, midollo di manzo, sale e pepe. Le fave verdi si mangiano con formaggio salato; non avendolo, va bene anche il Parmigiano; in ogni caso, si spolverano di pepe. Quando cominciano a diventare dure, si dà loro un bollo in acqua, per rendere più facile la rimozione della “corteccia” dai semi; così mondate, le fave si mettono in una teglia con olio o burro fresco, sale pepe ed “erbe buone”, e si fanno cuocere a fuoco basso. Quanto alle “erbe buone”, Castelvetro indica una mescolanza di prezzemolo, bieta, menta, basilico e timo freschi e minutamente tritati con un coltello; con prevalenza delle prime due erbe, di sapore meno “aguto”. I piselli e le taccole (i cosiddetti “piselli mangiatutto”, che si consumano con tutto il baccello) possono essere cotti in brodo con erbe buone, aggiungendo a mezza cottura lardo pestato; come preparazione di magro si faranno bollire in poca acqua, con molto olio, sale, erbe buone e spezie forti o dolci. In estate, “caldissima stagione”, gli Italiani usano “vie più l’erbe e cibi fatti d’esse e i frutti che le carni, le quali il soverchio calore ci fa venire a noia”. Insalate, e tante, di ogni sorta (Castelvetro cita anche una insalata di portulaca o porcellana, la “perchiazza” delle campagne pugliesi, che ormai non mangia più nessuno o quasi, sola o con altre erbe, ma sempre accompagnata con cipolla minutamente tagliata e pepe); e i cetrioli, che quando son freschissimi e piccoli si mangiano con cipolla e pepe; i più grossi invece vengono tagliati a metà, si toglie la parte centrale (ricca di semi) e si riempiono con una farcia di pan grattato, uova, buone erbe trite, cacio ed olio o burro; così riempiti i cetrioli si arrostiscono su una graticola o si lascian cuocere a fuoco basso in una teglia coperta. Si possono poi condire con pepe o spezie forti. Le zucchine verdi di piccole dimensione vanno tagliate a rondelle (alte un mezzo dito), infarinate e fritte, quindi condite con sale pepe ed agresto, in luogo del quale si può usare il succo di limone. Le zucche di grandi dimensioni si fanno in buon brodo cuocere, e quasi a fine cottura si getta nella pentola dove cuociono un miscuglio di uova sbattute con pane grattugiato, formaggio stagionato, spezie forti o pepe.
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