Il primo impatto degli europei con la specialità alimentare americana che più di tutte, forse, avrebbe riscosso nel tempo un successo planetario globale non fu positivo. Si trattava di un intruglio ribollente, dall’equivoco colore scuro, sormontato da una abbondante schiuma che a molti richiamava la feccia del vino. Era un beverone amaro, amarissimo; e non contribuiva a migliorarne molto il gusto, per chi veniva dal Vecchio Mondo, il fatto che fosse addizionato generosamente di peperoncino. Ma gli “Indiani” (o “Indios”, come sarebbero stati chiamati quelli dell’America latina) ne andavano matti. La bevanda si chiamava xocolatl, traslitterata anche come chocolatl, e non è difficile intravvedervi ciò che in Europa si chiamerà in Spagna cacauate o chocolate, in Italia cioccolatte, Si prepara con un procedimento complesso a partire dai grossi semi di una pianta, l’albero del cacao, che vengono tostati e frantumati, quindi sbattuti in acqua bollente fino a produrre una scurissima bevanda con abbondante schiuma marroncina; bevanda addizionata di peperoncino ma anche, eventualmente, di mais, miele e frutta. Le prime testimonianze scritte giudicano molto negativamente la bevanda donata agli uomini dal dio Quetzalcoatl, secondo gli Aztechi, che invece la tenevano in gran considerazione e ne usavano i semi, le cosiddette “fave di cacao”, come moneta corrente, e le utilizzavano in cucina anche per preparare varie salse, oltre al beverone energetico, tonificante ed afrodisiaco. “Un miscuglio che a me sembra cibo più da porci che da uomini”, lo definisce Gerolamo Benzoni, che soggiornò in America per 14 anni, dal 1542 al 1556 e pubblicò in Venezia la sua Historia del Mondo Nuovo. E parla malissimo del cioccolatte il gesuita José de Acosta, che darà alle stampe nel 1589 in Siviglia la sua enciclopedica Historia moral y natural de las Indias Occidentales. “Sulla superficie della tazza – scrive disgustato – si formano una schiuma ed un ribollimento molto poco invitanti, e ci vuole molto coraggio per passare oltre”. Eppure saranno proprio i gesuiti a decretare l’immensa fortuna del cioccolatte nel Vecchio Continente, vanamente contrastati dai domenicani, loro storici avversari. Sono i gesuiti che si fanno propagandisti della nuova bevanda, che nel Seicento esce definitivamente dall’ambiguo status di curiosità e/o di farmaco ricostituente perché, abbandonato il peperoncino, il cioccolatte si sorbisce ormai dolcificato con lo zucchero; che americano d’origine non è, ma che dalle Indie Occidentali proviene ormai in enormi quantità, dopo che vi si è rapidamente acclimata la canna da zucchero. E rapidamente il cioccolatte – aromatizzato con l’unica spezia trovata nelle Indie Occidentali, la delicata vaniglia, oltre che con la ben nota cannella – diviene la bevanda di moda fra le dame dell’aristocrazia spagnola e di quei territori, come le Fiandre e l’Italia, alla Spagna soggetti. E ben presto il cioccolatte oltrepassa anche i Pirenei, approdando in Francia. Intorno alla metà del Seicento il cioccolatte (che è ancora una specialità per ricchi) dilaga, e crea dipendenza (anche per il contenuto di caffeina). Ma il suo uso è favorito anche dall’essere una bevanda energetica consentita nei giorni di magro e di digiuno, tanto che le cattolicissime dame dell’aristocrazia spagnola giungono a sorbirlo persino mentre assistono alla Messa. In Italia il cioccolatte troverà casa in particolare a Torino, ma prima ancora a Firenze, dove viene aromatizzato con scorze di agrumi e in particolare con la ricetta segretissima dei Medici, con fiori di gelsomino. E c’è già chi, riprovato dai puristi, azzarda la sintesi fra due delle nuove bevande nervine: il cioccolatte ed il kavè, o caffè. Che invece si troveranno benissimo insieme, non solo nelle future praline o tavolette di solido cioccolato ma anche in una liquida specialità torinese: il bicerin. Evoluzione della bavareisa in gran voga nel Settecento, a base di cioccolata calda, sciroppo di zucchero, caffè e crema di latte, servita in grandi tazze, il bicerin viene reinventato nell’Ottocento e diventa una bandiera di Torino. Servito in un bicchierino (il bicerin, in torinese) senza manico, un piccolo calice, lasciando distinti i tre strati di cioccolata calda, caffè bollente e fredda crema di latte (nel 2001 la Regione Piemonte ha inserito il bicerin nell’Elenco dei prodotti agroalimentari tradizionali del Piemonte). Oggi il cioccolato si consuma soprattutto in forma solida, ma è un uso piuttosto recente, o in creme spalmabili dove comunque il contenuto di cacao e di burro di cacao è generalmente basso (in quelle di buona qualità è alta la percentuale di nocciole). Il cioccolato solido, infatti, è una invenzione del XIX secolo. Per tornare al Seicento, divertente è la stroncatura delle bevande toniche (cioccolatte, tè e caffè) che si stavano imponendo in quel secolo fatta da Francesco Redi, archiatra di casa Medici, nel suo Bacco in Toscana. Eppure proprio lui era depositario del segreto del cioccolatte al gelsomino...
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