BOSCO DI MONTEPIANO (ACCETTURA) - «Per piacere, non chiedermi opinioni, perché di opinioni ne ho poche». È quasi una supplica che rivolge al giornalista mentre dal suo rifugio di San Mauro Forte ci inoltriamo verso i maestosi cerri del bosco di Accettura. È la supplica di chi è forte della propria consapevole umiltà, quella nobile umiltà che solo chi sa scavare nel profondo della propria interiorità può permettersi. Alfonso Guida è il poeta solitario della Lucania, quella terra che gli si spalanca agli occhi dalla finestra di quella che lui scherzosamente definisce la sua «stamberga»: un abisso accecante di campi arati, geometrie macchiate dai contrasti improvvisi di boschi e vegetazione spontanea, colline che si alzano fin quasi a proteggere quella rocca affrescata di versi e citazioni, confusamente arredata di libri, ornata di oggetti che hanno vissuto altre storie e di scarno mobilio d’altri tempi: la sua casa in quel vicolo avvolto dal silenzio in cima a questo quieto paesino che pare sospeso nel tempo. È in questo dipinto naïf sottratto all’ansia della contemporaneità che il poeta si scioglie a manifestare uno spicchio di sé. Alfonso, l’ultimo tuo libro di poesie si intitola “Il tassidermista”. Chi è il tassidermista? Il tassidermista è un imbalsamatore di animali, antico mestiere che oggi credo sia estinto o ce ne sono pochi in giro. È una figura che mi è molto cara, risale alla mia infanzia, nasce soprattutto dall’osservazione degli uccelli imbalsamati e degli animali selvatici imbalsamati che quando ero piccolo mia madre teneva allineati sui mobili del soggiorno di casa e che spesso diventavano i miei interlocutori muti. Perché questo ritorno all’infanzia, alle origini? Nell’infanzia credo che vada ricercato l’anello che ti permette di ricongiungerti a qualcosa di stabile, di eterno. Non a caso questi animali che erano stati bloccati in un momento ben preciso, quello dell’imbalsamazione, mi davano proprio l’idea del varco che c’è tra l’eterno e il non eterno. È necessario tornare alle origini. Hai parlato di eternità: cosa è l’eternità? L’eternità è la condizione dell’immobilità, l’immobilità della natura. Nei tuoi lavori è molto presente la natura. Ti senti ricongiunto ad una dimensione naturale? Ci vivo immerso nella natura, la mia casa è immersa nei campi, il mio paese è stato immobilizzato dal punto di vista temporale e quindi sono in pieno contatto con la natura e con i suoi elementi, soprattutto con gli animali e con le piante. Nelle mie poesie è presente l’acqua, ci sono le faine che circolano sui tetti delle case di San Mauro di notte, sono presenti soprattutto gli uccelli rapaci che fanno gli acrobati, i funamboli nei cieli del mio paese: il nibbio, il gheppio, il falco. Alla fine ho trovato in queste figure apparentemente mute il mio vero interlocutore. Io parlo poco con gli uomini, quando mi capita di incontrarli ne approfitto perché mi sembra che possano darmi qualcosa e quindi comincio a parlare, ma il più delle volte sto muto con gli alberi. La poesia in quali termini ha contribuito alla tua crescita interiore? Io sono nato con la poesia, è venuto da sé dare spazio, respiro e vita a questa vocazione. Per me la poesia è fondamentalmente una vocazione, una necessità, qualcosa di cui non posso fare a meno. Più che la poesia, la scrittura. Questo tentare di portare su un quaderno bianco nello spazio smisurato e illuminato la realtà, forse per cercare di imparare a familiarizzare con l’estraneo che spesso individuiamo nella realtà. Nel tuo vissuto personale non deve essere stato facile integrarsi nella realtà… Non mi sono mai integrato e tuttora non sono integrato, perché ho scelto di vivere da non integrato, al margine, vivo sui marciapiedi del mondo dove ho sempre svolto la mia vita forse perché la natura ha fatto sì che io mi ritrovassi in una condizione di marginalità rispetto al mondo. La mia condizione sessuale, la mia condizione mentale, la stessa condizione della scrittura è qualcosa che ti isola che non ti permette di stare all’interno della compagine del mondo, hai bisogno necessariamente di solitudine. La tua sessualità in che modo ha condizionato la tua vita? Ti sei sentito emarginato? Mi sono sentito emarginato e soprattutto mi sono sentito annientato perché non mi davano la possibilità di esprimermi, ho vissuto in un piccolo paese dove c’è una grande ignoranza e dove domina il pregiudizio. Ho dovuto fare tutto da solo, ma senza sgomitare. Ho lottato, sì, ma non mi sono mai perso d’animo. Anzi, poi col tempo ho scoperto che forse molte di queste battaglie sono state insensate perché molte persone ti si avvicinano per il semplice fatto che sei un essere umano e hanno il piacere di dialogare con te, di stare con le tue parole. Questo si capisce tardi. Oggi ti senti sessualmente libero? Io sono libero perché non ammetto la relazione all’interno della mia vita, non sono nato per condividere la mia vita con una donna o con un uomo. Io amo l’avventura, mi realizzo nel passeggero, nell’avventura, che per me diventa tutto. Non ti piace la parola “gay”. Perché? Non mi piace la parola gay perché io non sono stato contento né felice né gioioso di questa condizione che mi sono ritrovato sulle spalle, anzi mi chiedo come si possa essere felici di una condizione che prima di essere vissuta con tranquillità ti porta dentro dolore e sofferenza, all’interno di uno scavo continuo. La dimensione del sacro: come la vivi, se la vivi? È il punto fisso della mia esistenza, io vengo da una famiglia molto religiosa, da un paese molto religioso. Da bambino partecipavo alle novene di maggio con le vecchie del paese, mi portavano lì. Quindi da bambino mi sono ritrovato a fare i conti con il sacro, volente o nolente, poi ho mandato avanti questo interesse occupandomi soprattutto di agiografia, delle vite dei santi, dello studio delle sacre scritture. Ti senti cattolico? Ahimè. Sei riconosciuto come un poeta di assoluto livello, però forse promuovi poco la tua immagine e il tuo talento? Per me è stato sempre importante il foglio e il quaderno con la bic nera. Il resto non mi interessa. A volte mi sento a disagio quando penso che avrei dovuto camminare, avrei dovuto incedere e invece sono rimasto un po’ indietro. Ma questo non importa, ciò che conta è avere rispetto dei propri tempi, del proprio passo sulla terra, del proprio cammino. Ci sono stati poeti che hanno rappresentato per te un punto di riferimento? Amelia Rosselli e Paul Celan. Perché? Amelia Rosselli è il labirinto della vita interiore, il mal de dieu, il mal di dio. Paul Celan perché mi ha permesso di entrare all’interno del linguaggio esplorandolo e sviscerandolo. Pasolini è stato un tuo grande amore letterario, ma questo amore è finito… Pasolini l’ho superato. Non si vede tutto di Pasolini, si prende in considerazione la genialità di Pasolini, il fatto di essere stato un intellettuale profetico, ma Pasolini aveva anche una grande violenza interiore. Amava la violenza, Pasolini, obbediva ad un impulso sadomasochistico nel suo rapporto con il mondo, nel suo rapportarsi con la realtà. Credo che questo vada superato, che bisogna andare al di là delle pulsioni sadomasochistiche che sono presenti in ognuno di noi, ma bisogna superarle e giungere ad uno stato di libertà totale che può essere rappresentato dal deserto come nel caso dei grandi mistici, dei santi. Ma può essere rappresentato anche dal mare aperto, dove vive la libertà secondo Nietzsche. Ti senti nel mare aperto, oggi? Sì, a volte ho le vertigini. Ti senti liberato dalle catene che forse ti hanno oppresso nel corso della tua vita? Sì, decisamente. Non ho più catene, sono un uomo libero che non sa dove andare. Quanto è costato liberarti dalle catene? Beh, il prezzo del dolore, del dolore di ogni uomo. Io non credo di aver sofferto più degli altri. Ognuno ha la sua dignità, il suo dolore, il suo percorso. Ho fatto un lungo cammino di introspezione e di sguardo rivolto all’interiore. Oggi credo di essermi liberato di gran parte delle catene che mi annientavano e mi toglievano il respiro. L’ho fatto prendendomi cura di me, cercando di capirmi, di comprendermi, di ascoltarmi, cercando di essere una presenza attiva nei confronti di me stesso. Quali sono state queste catene? La catena della madre, l’amore per mia madre… mi ha chiuso gli occhi e si è esteso su tutto il mondo come un grande buio. Oggi tua madre ti segue molto… Mia madre è innamorata di me. Cosa cogli negli sguardi di chi ti è accanto, di chi ti circonda o anche solo degli estranei che partecipano alla presentazione dei tuoi libri? Delle persone mi resta il loro linguaggio. Mi colpisce come parla una persona. Di questo tengo conto. Mi piace stare con le persone nonostante tutta questa solitudine, perché ritengo che un poeta che non frequenti le persone non possa scrivere. Non dimenticare l’essere umano nella grande solitudine in cui ci si ritrova a vivere. Cosa ti rende triste, invece? La smania di successo del mondo, degli altri. Una dimensione che a te non interessa affatto. No. Cosa vorresti che si dicesse delle tue poesie? Quello che non sono riuscito a pensare io di loro. Enzo Ferrari Direttore responsabile
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