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Una Romania che prende il nome da "Rumman", melagrana

Scena di banchetto arabo medievale in giardino

Scena di banchetto arabo medievale in giardino

Una teoria diffusionista un po’ troppo estrema fa derivare dal Medio Evo arabo buona parte degli usi e delle ricette di cucina del Medio Evo mediterraneo. I più ingenui sostenitori di questa tesi prendono ad esempio intitolazioni di ricette come il “Brodo saracenico” presente nei più antichi ricettari d’area italiana (e meridionale). Peccato che quel piatto sia detto “saracenico” con riferimento al colore scuro, come quello dei Mori, appunto, e che col mondo arabo non c’entri alcunché perché prevede l’uso di due ingredienti vietatissimi ai musulmani: lardo e vino. Una delle prime ricette di questo piatto è nel Liber de coquina (Italia meridionale, intorno alla fine del XIII secolo). La riportiamo (tradotta dal Latino medievale) per la curiosità del lettore. “Per il brodo saracenico prendi capponi arrosto e trista bene i loro fegati con spezie e pane abbrustolito, stemperando con buon vino e succhi agri. Poi fa’ a pezzi i detti caponi, e con gli altri ingredienti metti a bollire in una pentola, aggiungendo datteri uva greca passa, mandorle intere pelate e lardo a sufficienza; colora come ti piace”. O, ancora, attribuiscono al mondo arabo lo scapece: che di arabo ha solo il nome, derivato dal persiano sikbaj: perché la ricetta è già in Apicio. Però dal mondo arabo giunsero davvero nelle nostre cucine, ove comunque furono riadattati, alcuni piatti. La Limonìa (o Lumonìa), di cui abbiamo già parlato, che ebbe successo anche nell’area catalana (pollo a doppia cottura: prima rosolato, poi fatto stufare in brodo e latte di mandorla quindi irrorato di limone), per esempio, o la Romanìa, il cui nome potrebbe trarre in inganno: non c’entrano Roma né il Paese che oggi chiamiamo appunto Romania, ma la melagrana, in Arabo rumman. La prima ricetta che possediamo di Rummaniya è nel ricettario compilato nel 1226 da Muhammad al-Baghdadi (non un cuoco ma un copista), il Kitab al-tabikh, ovvero il “Libro di vivande” (c’è una bella traduzione italiana commentata, curata da Mario Casari, con una sezione di ricette “attualizzate”, intitolata “Il cuoco di Baghdad”). Ed è piuttosto differente dalla versione che ne ricavarono gli Europei. Si mette a bollire in un calderone la “carne” (non si specifica quale: in questi casi si tratta di montone) tagliata in pezzi di media grandezza, con un po’ di “sale profumato”; si rimuove con grande cura la schiuma. Si sbollentano in un recipiente a parte melanzane sbucciate, cipolle pelate, fette di zucca senza buccia né semi, quindi si gettano nel calderone; si aggiungono coriandolo, cumino, cannella, pepe lentisco e rametti di menta fresca e si fa cuocere bene. Poi si spreme nel calderone il succo filtrato di una melagrana acerba, si aggiunge menta secca sbriciolata e un po’ d’aglio spremuto; si può aggiungere anche un pollo smembrato, che cuocerà insieme con la carne, e si fa sobbollire ancora per un’ora. Questo intruglio fu radicalmente revisionato dai cuochi italiani, che gli conservarono solo il nome, traslitterato in Romanìa, il succo di melagrana, le mandorle e il pollo (non il montone), e ne modificarono radicalmente anche le modalità di cottura. Nel Liber de coquina abbiamo questa molto più ghiotta ricetta. “Per la Romanìa si soffriggano i polli con lardo e cipolle; si tritino [finemente; il testo non lo dice, ma altrimenti non passerebbe abbastanza latte di mandorla attraverso il colino] mandorle non pelate stemperando con succo di melagrane agre e dolci; si passi al colino e si metta a bollire coi polli, mescolando col cucchiaio, ed aggiungendo spezie”. Di che spezie si tratti lo ricaviamo da altre ricette: pepe nero, pepe lungo, chiodi di garofano, noce moscata. Il “sale profumato” (Milh mutayyab) presente nella ricetta araba di Rummaniya ha una preparazione lunga e complessa; in estrema sintesi è un salgemma poi finemente macinato aromatizzato con un po’ di semi finemente ridotti in polvere anch’essi di cumino, finocchio, anice, coriandolo, papavero, sesamo, canapa e nigella fatti precedentemente leggermente tostare; al tutto si aggiunge anche un po’ di zafferano. Ci andrebbe anche un pizzico di “foglie di ferula”; dovrebbe trattarsi dell’Assafetida, una ombrellifera parente del laser dei Romani ma molto più fetida e in genere assai sgradita agli Occidentali, per quanto usata tutt’oggi, ma in dosi infinitesimali, in alcune cucine orientali, l’indiana in particolare... Dal mondo arabo arriva anche la Sumachia: nella versione del Liber de coquina un pollo intero rosolato in lardo la cui cottura prosegue in una salsa di mandorle trite e bacche secche di sommacco tritate stemperate in acqua; si tratta delle bacche della pianta della Rhus coriaria, dal forte sapore agro e dall’intenso colore rosso, ricche di tannini, che in Europa non ebbero fortuna come ingrediente, semmai in tintoria. Come spezia, si produce ancora, per quanto poco usata, in Sicilia. La Rhus coriaria, Sommacco siciliano, non va confusa con la Rhus typhina, o Sommacco maggiore, americana, pianta solo ornamentale e tossica.
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