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La storia

Il ministro Giuli, lo Zeus di Ugento ed il MArTA di Taranto

Nel libro del ministro della Cultura anche una delle icone del Museo Archeologico Nazionale del capoluogo ionico

Il ministro Giuli, lo Zeus di Ugento ed il MArTA di Taranto

Il ministro Giuli, lo Zeus di Ugento ed il MArTA di Taranto

Ogni buona storia ha il diritto (o il dovere?) di essere raccontata. Ce ne sono alcune che si impossessano di narratori d’eccezione. Quella della Zeus di Ugento, icona dell’archeologia pugliese e una delle perle di quella collana di meraviglie che è il Museo Archeologico nazionale MArTA di Taranto è voluta finire sulla penna di un giornalista elegante, esploratore del Passato e uomo di cultura che risponde al nome di Alessandro Giuli. Della Cultura adesso Giuli è ministro - chiamato dalla premier Meloni nel settembre 2024 per sostituire Gennaro Sangiuliano - e l’editore Baldini+Castoldi ha dato alle stampe nei mesi scorsi “Antico Presente. Viaggio nel sacro vivente”, che raccoglie una raccolta di articoli del Giuli-giornalista pubblicati su Il Foglio dal 2004 al 2016.

«Una guida d’autore per scoprire i miti che hanno raccontato la storia dell’Italia antica, un itinerario curioso tra i luoghi e le leggende del nostro paese» la definisce l’editore. «Il ministro della Cultura Alessandro Giuli traccia un percorso che inizia con le popolazioni italiche e attraversa il mondo etrusco e romano, guidando il viaggiatore d’oggi a riscoprire le tracce nascoste di quel mondo arcaico. Un viaggio nell’Italia meno conosciuta, che comincia con le sorprese che anche un museo a cielo aperto come Roma può ancora riservare, per seguire vie poco battute tra Maremma, Tuscia e Abruzzo, rievocando epiche battaglie, miti fondativi e leggende che hanno plasmato la nostra civiltà. Un viaggio tra le storie di un tempo sempre presente, che si allunga verso il Mediterraneo, in Puglia, dove i Cartaginesi atterrirono i Romani, nell’eco della Magna Grecia, fino a lambire i confini estremi del mare nostrum, in paesi lontani, ma da sempre legati all’Italia per storia e cultura».

«Come magneti con la limatura di ferro, i luoghi del passato più remoto attraggono, plasmano nuove forme, costringendo talvolta a un attimo di silenzio perfino l’animo volgare dell’uomo moderno» scriveva Giuli nel 2012, aggiungendo che «se gli archeologi contemporanei deponessero l’ego e riuscissero a comprendere tutto ciò, se non fossero diventati dei ruminanti specializzati, ammetterebbero di svolgere nient’altro che la funzione di un medium: messaggeri agiti da un mittente primordiale intenzionato a svelarsi nel giusto momento». Ed è «il maggior archeologo vivente, per tacer d’altro» Andrea Carandini a firmare la prefazione della raccolta, una «presentazione» che «ha preso la firma di una critica» perchè, evidenzia “l’archeo-star emerita” (cit. sempre Giuli del 2012) «veniamo da tradizioni assai diverse». Certo, scrive l’archeologo, «Giuli è un uomo colto, fatto raro nella classe dirigente attuale»; «sua passione è la storia delle religioni, più in particolare il paganesimo greco e romano». Nell’Ellade Zeus era la più grande delle divinità. In “Il canto di Zeus a Ugento” Giuli racconta: «Ugento (Lecce), esterno notte, vigilia di Natale del 1961. Luigi e Vito stanno scavando nel terreno di una casa privata, la casa di Domenico detto Cosimo. Lo scavo serve per assemblare un terrapieno sul quale costruire una piccola veranda per la nuova villetta di suo figlio Luigi. Lavori domestici come se ne facevano, come se ne fanno ancora nei piccoli centri abitati. A un certo punto la vanga incontra una resistenza, un blocco di pietra dura, una roccia? No, non è una roccia, sembra lavorata dall’uomo... Gratta bene, Vito, gratta lì... Sterra, sterra.. Aiutami a sollevare, tieni qui... E pure voi... Alzate, alzate... E’ un capitello dorico, antico, fatto di marmo, già di suo una bella scoperta. Ma sotto quel capitello si apre una fossa nauseabonda, più profonda che larga, graveolente. Doveva esserci una fossa biologica, una latrina qui intorno.. chissà da quanti anni, decenni. Ma ecco spuntare qualcosa d’altro: “Un pupo!” urla Cosimo, che ricorderà così l’evento prodigioso: “Si stava costruendo una villetta per mio figlio, quando ad un certo punto abbiamo trovato una base e una volta spezzata, e caduta in un piccolo vano, incatenata alla parte di sotto della pietra vi era questo pupo”. Pupo, così l’hanno chiamata per la prima volta, appena dissotterrata, la statua arcaica di Zeus saettante ritrovata nella messapica Ugento, 74 centimetri di bronzo, un unicum in ambito magnogreco».

Lo Zeus di Ugento

Nello stesso articolo-capitolo, il giornalista che diventerà ministro ricorda come dopo più di una peripezia il 4 aprile ‘63 «sotto gli occhi del presidente della Repubblica Antonio Segni lo Zeus di Ugento fu mostrato al pubblico. Ma non a Ugento, nel Museo nazionale archeologico di Taranto (MArTA). E lì è ancora, (la statua ndr) per lungo tempo incomprensibilmente nascosta agli occhi del mondo, ostinatamente sottratta alla sua sede naturale: il Museo Civico di Ugento. Motivazione ufficiale della Soprentendenza: non si riusciva a realizzare un allestimento museale per i reperti di età arcaica. E così Zeus se ne stava rinchiuso in magazzino, lui che già trovara innaturale un tetto comune sopra il suo capo celeste. Nel frattempo, almeno, la Statua di Zeus ha trovato nel MArTA di Taranto la dimora e lo spazio confacente al proprio rango».

In effetti, nella Sala I al secondo piano del museo Zeus ha un posto d’onore, occhieggiando - in una reciproca soddisfazione - il gruppo scultoreo di Orfeo e le Sirene. Questo mentre ormai da due anni il Museo di Taranto collabora con il bel Museo Civico di Ugento, che ha una copia della statua all’interno della nuova sede ospitata  nel Convento dei Francescani di S. Maria della Pietà, nel centro storico della cittadina salentina. Il Museo tarantino lavora con l’amministrazione comunale di Ugento anche per progetti di ricerca e valorizzazione comune.

La scheda

Rinvenuta nel 1961 a Ugento, centro dell’antica Messapia, durante lavori di ampliamento di un’abitazione privata, la statua in bronzo raffigura Zeus nell’atto di scagliare la folgore (perduta) con la mano destra, mentre sulla sinistra posava un’aquila di cui rimangono gli artigli. Sul capo del dio si osservano due corone, una di rosette e l’altra di foglie d’alloro. La statua, alta 74 cm, era in origine eretta al di sopra di una colonna in un’area sacra a cielo aperto, priva di edifici monumentali come tipico dei santuari messapici. Del supporto si conserva il grande capitello dorico in pietra leccese, di lato pari all’altezza della statua e decorato sull’abaco (la parte superiore del capitello) da un fregio di rosette che richiamano quelle della corona di Zeus. Il capitello, rovesciato, venne riutilizzato per sigillare la cavità nella quale la statua era stata ritualmente deposta, forse per preservarla da un pericolo non meglio identificabile. Capolavoro della bronzistica tardo-arcaica realizzato con la tecnica della fusione a cera persa, lo Zeus di Ugento deve essere probabilmente attribuito a un atelier tarantino, testimoniando degli intensi contatti che, al di là dei momenti di scontro anche violento, legarono gli abitanti della colonia spartana alle popolazioni indigene del Salento. (da museotaranto.cultura.gov.it/it/reperto/zeus-di-ugento/)

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