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L’epigramma perduto di Leonida

Il racconto breve di Cosimo Dellisanti dedicato alla capitolazione ai Romani di Taranto magno-greca

L'epigramma perduto di Leonida, il racconto

L'epigramma perduto di Leonida, il racconto

Nella percezione generale il declino di Taranto magno-greca cominciò con la sconfitta di Pirro nel 275 a.C. a Maleventum, da quel momento Beneventum. In realtà, la crisi era iniziata vari anni prima, mentre la capitolazione della città sarebbe avvenuta qualche anno più tardi, con l’occupazione romana del 272 a.C. Appunto al momento della capitolazione ai Romani è dedicato il racconto breve di Cosimo Dellisanti L’epigramma perduto di Leonida, in cui egli fa incrociare i destini di due tarantini i cui nomi, legati a quella fase storica, sono pervenuti fino a noi: il poeta Leonida, fuggito da Taranto per non diventare schiavo romano, con il carattere struggente dei suoi versi in tanta parte ispirati alla sua vita da esule, e l’ubriacone Filonide, che - circa dieci anni prima con complessi sforzi diplomatici in atto - aveva orinato sulla toga dell’ambasciatore romano Postumio, aggravando così la tensione tra Roma e Taranto. È una buia notte d’estate (popolata di animali e di riferimenti ad animali) e, mentre fugge per raggiungere la nave epirota che lo attende nel porto, Leonida si imbatte in un gruppo di giovani che stanno massacrando di botte Filonide, additato come responsabile dell’ostilità dei Romani. Leonida riesce a mettere in fuga per qualche attimo i giovinastri con il vecchio ubriacone che lo ringrazia e ne implora l’aiuto. Gli eventi però precipitano e poco dopo Filonide viene finito dai suoi violenti aggressori. Leonida riuscirà a prendere il largo non senza aver prima graffito su un muro un epigramma dedicato a Filonide, centrato sulla volubilità della fortuna degli uomini. Tutto ciò raccontato dalla scrittura mimetica ed elegante di Cosimo Dellisanti.

(Giovangualberto Carducci)

*   *   *   *   *   *

La caduta di Taranto iniziò con l’arrivo di due notizie. La prima, Pirro, il più forte conquistatore del mondo dopo Alessandro, era caduto ad Argo durante l’assalto finale, quando una vecchia affacciata dal tetto gli aveva fatto cadere in testa una tegola, spezzandogli il collo.

E pheû, fine del poema epico.

Seconda notizia, le legioni romane avevano ripreso la marcia verso Taranto.

In città avvampò il caos. I generali che Pirro aveva lasciato a difendere Taranto la abbandonarono (lui aveva prestato giuramento, mica loro), e con la resa imminente, gli oligarchi scatenarono una caccia spietata ai democratici rimasti in città, accusandoli di essere gli unici responsabili della sconfitta.

Non era quella, la verità. Leonida sapeva la verità, ma tutto ciò che poteva fare, ormai, era fuggire. Cacciatori di uomini imperversarono nella città con le spade in pugno. Sfondavano le porte a calci. Trascinavano fuori la gente da casa propria. Strappavano i neonati dalle braccia delle mamme. Catturateli vivi, ordinavano gli oligarchi, è colpa loro se siamo stati sconfitti. Vendicate Taranto! (E già che ci siete, recuperate le spese. Niente riempie le casse dello Stato meglio della vendita in schiavitù dei tre quarti della popolazione).

La guerra, il caos e gli oligarchi avevano tolto a Leonida tutto ciò che aveva avuto di più caro. Tanti amici, la famiglia, la casa dov’era cresciuto, l’amore della sua vita, e forse anche la sua stessa libertà. L’ultima sua speranza era Milone, il generale epirota che, per ripagarlo del suo servizio speciale in guerra, gli aveva concesso di imbarcarsi per l’Epiro, ma giungere vivo e libero al porto in tempo per la partenza… questa era l’impresa eroica.

Rimase nascosto per settimane nelle case abbandonate, fra quelle già saccheggiate, mangiando quello che trovava, dormendo con un occhio aperto e la mano sul pugnale, sobbalzando per ogni topo che sbucava dal muro. Si spostava solamente al buio, e nelle brevi tregue fra una corsa sui tetti e l’altra, quando riusciva a riposarsi, continuava ad assalirlo la visione di sé stesso in ginocchio sul molo ormai deserto, con le vele della flotta epirota all’orizzonte.

Questo pensiero poteva tormentarlo per ore, insieme alla tentazione, sempre più forte, di piantarsi il pugnale nel petto, perché non avrebbe permesso a nessun fottuto oligarca di svenderlo come un bue da attaccare all’aratro. Piuttosto la morte.

L’estate arrivò, trascorse, e sul suo finire i Romani asserragliarono Taranto tagliando ogni via d’uscita lungo il perimetro della città. L’intera città era tutta una rovina fatta di case abbandonate, finestre buie, vicoli oscuri, piazze e templi deserti, mentre le teste delle torri d’assedio sovrastavano le mura facendo pensare a ciclopi silenziosi che vi sbirciano dentro prima di attaccare.

Leonida era dimagrito, arruffato come l’ultimo dei cani randagi, e visse i suoi ultimi giorni a Taranto in una baracca nei pressi del porto. Era stata la casa di un vasaio suo amico, democratico anche lui. L’aveva trovata vuota. In un angolo c’erano ancora i cocci delle marionette d’argilla fatte a mano dalle sue figlie. La calura l’opprimeva a ogni ora del giorno, e la porta sbarrata appesantiva ancor di più la prigionia. Leonida attese il giorno della partenza spiando in strada attraverso i buchi dei muri, sgranocchiando pane duro, la mano sempre sul pugnale, ma vide solamente i gatti che prendevano d’assalto le rovine di un mercato del pesce.

Giunse, infine, il momento di andare. Già durante la notte gli dèi del mare fecero alzare un vento tiepido e tranquillo, adatto alle vele. La flotta salpava all’alba. Leonida abbandonò il nascondiglio quando era ancora buio. Gli epiroti lo avrebbero aspettato? Lo avrebbero fatto salire a bordo, o lo avrebbero tradito all’ultimo, come avevano fatto con la città intera? Avevano consegnato Taranto ai Romani senza neanche che questi avessero lasciato in dono un cavallo di legno davanti alle porte.

Leonida attese che il buio si facesse impenetrabile, poi recuperò un bastone, ne incendiò un’estremità e lasciò la baracca. La porta sbatté, e per lo spavento un gatto tutto nero si arrampicò su per il muro con qualcosa di morto fra i denti. Le vie, strettissime e completamente nere, si illuminavano un passo alla volta. I graffiti sui muri apparivano e sparivano al suo passaggio come visioni di un tempo lontano. Quelli più vecchi erano i più esaltanti – ALALÀ ALALÀ – MORTE AL BARBARO ROMANO – PIRRO, TU SEI IL NUOVO ACHILLE. Più recentemente, invece, qualcuno aveva lasciato un messaggio agli imminenti conquistatori nella loro stessa lingua – ROMANES EUNT DOMUS

– anche se Leonida dubitava che “Romani, andate a casa” si traducesse così.

Il porto era sempre più vicino, e anche la flotta; e con la flotta, la libertà. Già si sentiva il profumo delle onde che si infrangono sugli scogli, quando s’imbatté in un pestaggio, davanti all’ultima taverna viva della città. Erano in tre contro uno. Il primo reggeva la lanterna e gli altri due prendevano a calci un poveraccio fra cataste di legno e vecchie anfore fracassate.

Gli aggressori avevano voci energiche, squillanti, piene. Sedici o diciotto anni, non di più. All’inizio della guerra dovevano essere stati soltanto dei bambini cresciuti a pane e parole come vittoria, onore e libertà, delusi e arrabbiati perché era tutto finito prima che a loro fossero spuntati i peli sul mento. Quello a terra, invece, piangeva come un povero vecchio.

Ora, quello che Leonida desiderava più di ogni altra cosa al mondo era mettere piede su una maledetta nave epirota e fuggire. Aveva vissuto per settimane come un ratto nelle case altrui per questo; solamente per un capriccio del Destino, però, non era lui quello per terra che veniva preso a calci nelle viscere. Con molta calma, si avvicinò ai tre, che, per brevissimo tempo, s’interruppero.

Quello che sembrava il più arrabbiato gli disse: «Uomo, non ti riconosco. Perché non te ne vai?», poi ricominciarono immediatamente coi calci.

Leonida fece un altro passo in avanti e disse: «Cosa vi ha fatto quest’uomo?».

I tre s’interruppero di nuovo, e quello che faceva luce avvicinò la lanterna alla faccia del vecchio. Era calvo, gonfio, livido. Aveva la barba tutta impastata di sangue, e sanguinava dalla bocca, dal naso, persino dalle orecchie. Gli mancavano anche molti denti, ma quelli li aveva persi già prima.

Leonida lo sapeva bene che, di denti, quello non ne aveva quasi più; lo conosceva da anni.

«Questo figlio di cagna ha provocato i Romani. Per colpa sua, mio fratello è stato venduto schiavo. Mia madre è disperata, mio padre non si dà pace, e nemmeno io». Detto ciò, il più arrabbiato gli assestò una pedata sul fegato, già gonfio per il troppo bere.

Quello scricciolo si sbagliava. Non era stato quel pitocco ubriacone a provocare i Romani. Leonida lo sapeva: aveva interrogato informatori, aveva origliato i discorsi dei generali dietro le tende negli accampamenti, aveva torturato i prigionieri dopo la battaglia di Eraclea, e sapeva la verità. Gli oligarchi tarantini avevano voluto la guerra. L’incidente di capo Lacinio, quando dieci navi romane violarono il golfo di Taranto, fu combinato dagli oligarchi e dai Romani stessi. Persino la trattativa di pace fra le due città non era altro che una commedia scritta dai senatori di Roma, un verso ciascuno. Il destino di Taranto era stato deciso prima che quello squallido commediante travestito da ambasciatore si presentasse in teatro con la sua bella toga bianca e rossa, per parlare di pace e sorellanza, storpiando atrocemente la lingua di Omero, mentre gli oligarchi fomentavano dagli spalti i Tarantini. Ma sentitelo, non gli riesce nemmeno di dire “pace” senza grugnire come un porco alla sgozzatura. E i Tarantini ci andarono dietro deridendolo, insultandolo, facendogli il verso, perché

senza saperlo erano parte della commedia anche loro.

Poi, proprio come succede in certi miti, il destino discese dall’alto in forma di pioggia dorata. Filonide, che tutti chiamavano Coppa perché sempre pieno di vino, si rizzò sullo spalto, sollevò il chitone e pisciò addosso all’ambasciatore. Il fiotto lo centrò sul petto, finendo anche sulla spalla e sulla schiena. Il finale perfetto per una tragica commedia.

Ignorando l’ambasciatore che sbraitava di lacrime e sangue, i Tarantini esplosero in un’esultanza da vittoria ai Giochi Olimpici. Circondarono Filonide, lo abbracciarono, lo innalzarono al cielo e lo portarono in processione per Taranto come un grosso cazzo di legno alle falloforie. Leonida ricordava bene quel momento: era stato fra quelli che accompagnarono Filonide in trionfo.

Non si rividero più, perché Leonida si arruolò immediatamente nella cavalleria, combatté al fianco di Pirro a Eraclea, poi ne diventò una spia e lo seguì nel suo disastroso tentativo di conquistare la Sicilia; infine si decise a rimanere a Taranto quando Pirro abbandonò l’Italia per la Grecia, in cerca di nuove avventure. Quanti anni erano trascorsi? Otto, dieci?

«Lasciatelo stare» disse Leonida.

«Cosa dici, uomo? Mio padre non si dà pace…».

Scattando come un cane da guardia, Leonida sbatté il fanciullo al muro bloccandolo e strizzandogli la mandibola con la sola mano sinistra, mentre con la torcia nella destra teneva a bada gli altri due, che stettero al loro posto cercando di calmarlo. Leonida sussurrò: «Tuo padre era sicuramente fra quelli che applaudivano, quando questo vecchio pisciò sul romano, quindi fa’ la cosa giusta: torna a casa e dài uno o due calci nelle palle anche a lui». Diede un buffetto sulla guancia senza peli del fanciullo, lo lasciò andare e ringhiò: «Via, sparite», e quelli via, sparirono, poi aiutò Filonide a tirarsi su, ma il vecchio ubriacone non aveva più gambe degne di questo nome.

Sentir piangere quel vecchio era come sentir piangere un bambino ferito. Doveva portarlo via di là, al sicuro, ma la flotta, stava per partire. Allora, Leonida aiutò Filonide ad appoggiarsi al muro.

«Vado a chiamare aiuto» disse.

«No, non lasciarmi, se tornano mi ammazzano» sussurrò Filonide, appigliandosi alle sue braccia. I tre tornavano davvero. Leonida sentiva le loro voci furiose, più altre, e più il tintinnio del tallone delle lance che batte sulle pietre. «Filonide, amico,» disse Leonida, «tieni duro, corro a chiamare

aiuto».

Filonide, disperato, si avvinghiò a Leonida, che però lo respinse, spense la torcia battendola per terra fece calare il buio. Filonide singhiozzava, non voleva morire. Poi tornò la luce, le torce delle guardie che accompagnavano i tre aggressori. Eccolo, l’ubriacone. E l’altro dov’è andato? È scappato, il codardo. Lo cerchiamo dopo. Ricominciarono subito coi calci e coi pestoni più crudeli di prima. Fra le risate e gli insulti si sentiva il rumore umido delle ossa che si rompono nella carne. Ou diùnamai pnèin, «non respiro», le ultime parole di Filonide.

Quando i vendicatori di Taranto decisero che ne avevano abbastanza, già rischiarava. Leonida strisciò fuori dal suo nascondiglio, una giara sventrata all’angolo della strada. Difficile dire ancora al buio cos’era rimasto di Filonide. Un ammasso di cocci umani contro il muro, immerso in una pozzanghera appiccicosa. Leonida si chinò sulla cosa umana, chiedendogli perdono. Poi, alla debole luce dell’alba, estrasse il pugnale e incise nel muro, proprio sopra la testa di Filonide, l’epigramma. Compose di getto, lasciando che le parole fluissero e si trasformassero in graffi oscuri nel tufo. Solo il destino aveva voluto che non fosse lui quello ucciso a calci in un vicolo della città, con le ossa rotte e le viscere fuori posto. Quell’epigramma fu tutto ciò che poté offrire per sdebitarsi con la sorte.

Terminò di incidere l’ultimo accento, poi corse verso il porto. Fuggì da Taranto, viaggiò in Grecia, in Asia, e si stabilì ad Alessandria d’Egitto. Non trascrisse mai più quell’epigramma, che non fu ricopiato dai filologi di Alessandria, né arrivò a Bisanzio centinaia di anni dopo per essere riportato nell’antologia poi diventata la Palatina.

Quelli che al mattino recuperarono Filonide, però, avrebbero trovato sul muro questi versi:

Poiché bevevo oltre ogni bisogno,

Voi Tarantini mi chiamaste Coppa, che, alta, elevaste agli Dèi

quando eroicamente

mi sversai sul romano,

e che poi i vostri figli pestarono

spezzandola in cento e più ostrakon.

Il vino rosso, spandendosi a terra,

è una libagione

per gli dèi della morte.

Anche un pitocco ubriacone diventa eroe, seppur per un battito d’ali.

Non un poema, ma quest’epigramma per me, Filonide, Leonida pose.

Cosimo Dellisanti

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