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dalla letteratura al set

Leopardi, poeta dell'Infinito

Martina Franca set per le riprese della miniserie evento che ha raccontato la vicenda umana e storica del grande poeta

Martina Franca set per la  miniserie  “Leopardi - Il poeta dell’infinito” (fonte pagina Facebook Comune di Martina Franca)

Martina Franca set per la miniserie “Leopardi - Il poeta dell’infinito” (fonte pagina Facebook Comune di Martina Franca)

Martina Franca ha conquistato il piccolo schermo: il centro storico e il Palazzo Ducale della Città della Valle d’Itria hanno fatto da splendida cornice alla miniserie evento “Leopardi - Il poeta dell’infinito”, andata in onda su Rai 1 il 7 e l’8 gennaio. Diretta da Sergio Rubini, la produzione ha scelto Martina Franca e altre location pugliesi e marchigiane per raccontare la vita del grande poeta.

Le riprese della miniserie nel Centro storico di Martina Franca (fonte pagina Facebook Comune di Martina Franca)

D’eccezione il cast formato da Leonardo Maltese nei panni di Giacomo Leopardi, Alessio Boni nel ruolo del padre, il Conte Monaldo, Valentina Cervi nei panni della madre Adelaide Antici, Giusy Buscemi in quello dell’amata Fanny Targioni Tozzetti, Cristiano Caccamo nelle vesti dell’amico Antonio Ranieri, Fausto Russo Alesi nella parte del mentore Pietro Giordani, Alessandro Preziosi nel ruolo di Don Carmine. Tante le comparse selezionate in Puglia.

Le riprese della miniserie nel Centro storico di Martina Franca (fonte pagina Facebook Comune di Martina Franca)

di Paolo De Stefano

“E mi ricordo, che fu più ardito / a sostener tanto che io giunsi / l’aspetto mio col volere infinito”

(Dante, Paradiso, XXXIII, 79, 81)

“Questa contemplazione è la prima grande rivelazione del suo genio / sempre insieme e profondo”

(Francesco De Sanctis, “Leopardi” a cura di Asor Rosa, Bari, Laterza, 1958, pag. 93)

Caro direttore, nei giorni scorsi la televisione ha trasmesso in due puntate la vita di Giacomo Leopardi dal titolo “Il poeta dell’Infinito”. L’infinito del grande Leopardi faceva parte dei piccoli “Idilli” sull’esempio di certa poesia greca nella quale il giovanissimo poeta era già esperto; successivamente quei piccoli “Idilli”, tra i quali “L’Infinito”, “Alla luna”, “La sera del dì di festa”, furono sostituiti dal termine “Canti” e in tutte le successive edizioni quel nome rimase.

Il primo critico che ebbe a sostenere cosa era nel suo bisogno di malinconico travaglio spirituale del poeta Leopardi, fu “L’infinito”, e il critico fu Francesco De Sanctis dal quale traggo alcune espressioni estetiche a cura di Asor Rosa, Feltrinelli, 1954.

De Sanctis ebbe a scrivere: “notabile è l’idillio quinto a proposito de “L’infinito” del poeta greco Mosco, che fu tradotto dal Leopardi in giovanissima età. Una prima contemplazione dell’opera leopardiana, che è tutta in versi endecasillabi, senza rima ma con l’ultima parola del verso sempre piana, fu proprio sull’esempio dell’idillio di Mosco”.

Ma Leopardi andò ben oltre. La poesia di quindici versi ha, tuttavia, nel suo sistema metrico una accentuazione che presenta ben sedici segni di interpunzione.

Perché tante pause? Perché “L’infinito” va letto, e qui sbagliano moltissimi, anche docenti, non come una semplice, anche se triste, lirica, ma come una continua frenata del cuore, dell’anima che si incanta al supremo, non del cielo, ma della natura.

Le pause che Leopardi pone attraverso la punteggiatura sono sospiri, sono punti di evocazione, è inesorabile memoria del destino umano che contempla l’unica forma dell’universo, ora natura benigna, ora matrigna.

E qui si ritorna alle significative parole del De Sanctis: “La scena è su quel colle. Il giovane è in quello stato di dolce malinconia, che ti rende cara la natura quasi fosse una tua confidente. La malinconia gli aguzza il senso remoto della bellezza”.

Ma c’è anche di più. E ben lo coglie una critica molto più vicina al De Sanctis che anni dopo a Benedetto Croce. Quale il motivo dominante nella immensità; espressione che Leopardi corresse nella voce “infinità”.

Il motivo colto anche dal critico Momigliano è il silenzio del cielo rispetto alla voce della natura perché basta un cader delle foglie da un albero che a Leopardi ricorda la voce del passato e dell’umana esistenza.

Di qui nasce quella “profondissima quiete” della vita rispetto alle morte stagioni.

Momigliano scrisse: “il poeta si smarrisce in grandi pensieri, l’annullamento del tutto, il tramonto della giovinezza, le illusioni, la vana attesa della gioia”.

Il Leopardi naufraga nell’immensità che è infinità. A lui manca l’attesa di un giorno diverso anche se, come scrisse Luigi Russo nel suo ritratto su Leopardi, nel poeta c’è sempre un senso “agonistico” che è una ricerca di una gioia inespressa nella stessa natura della vita e delle cose.

A differenza del Pascoli, “L’infinito” non è un cielo di tacite stelle, di convulse costellazioni, nel Leopardi “L’Infinito” è un approdo di un’anima triste e amaramente chiusa in sé.

Manca, nei due poeti, Pascoli e Leopardi, la manzoniana Fede cristiana.

In loro c’è solo “una fede” nel cursus naturae che fa parte della vita umana.

E l’uomo cosa è? Fa parte delle “morte stagioni”. Nel Leopardi è un dolce mare nel quale vuole naufragare, nel Pascoli è solo un pianto di stelle che scende sulla terra da un concavo cielo.

Ora il problema si sposta su un’altra questione: fu Leopardi anche, e particolarmente, un filosofo?

Per il Croce fu poeta grandissimo ma non ebbe una concezione della filosofia.

Il problema, per Luigi Russo, “Il problema di metodo critico” Laterza, Bari, 1950, fu “la crisi morale del Leopardi una crisi intellettuale che seguiva ogni suo tentato atteggiamento di vita” pag. 156.

Il problema fu radicalmente risolto da Giovanni Gentile che si scostò dal pensiero crociano e, soprattutto, nel commento alle leopardiane “Operette morali” (Zanichelli, Bologna, 1918) avvertì nel Leopardi un profondo sentimento filosofico, che non fu un metodo scolasticamente inteso ma fu un concetto essenzialmente morale che lo accompagnò per tutta la sua esistenza.

Fu quello il motivo anche etico del “suo filosofare” e lo dimostrò ampiamente anche nelle sue “Operette morali” nelle quali se non si parla di filosofia come metodo di pensiero, si parla, tuttavia, di “credenza” che è il concetto fondamentale che il poeta ebbe nel suo mondo; pertanto la stessa vita del Leopardi, non solo fu un’esistenza di altissima poesia, ma anche una continua ricerca del perché noi siamo nati e del perché dobbiamo morire.

Questo concetto lo espresse proprio nell’idillio “L’Infinito” che è il punto di arrivo e non di partenza di un’anima solitaria e triste, ma tuttavia ancora viva e palpitante.

“L’Infinito” è una lirica eterna di spirituale fascino.

È il dolce naufragio in un mare che non è di onde ma di cielo in cielo anche se il cielo non è illuminato da una luce di grazia divina; ma quel Dio che atterra e suscita, che affanna e che consola, gli fu divinamente vicino perché lui, Leopardi, aveva troppo sofferto, ma aveva anche troppo amato.

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