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Virgole Golose

Ecco il Seicento italiano

La mitica figura del cuoco bolognese Bartolomeo Stefani

Ecco il Seicento italiano

Ecco il Seicento italiano

Nel Seicento (XVII secolo) la potenza italiana è ormai in declino, i suoi Stati sono spesso soggetti a potenze straniere, le rotte oceaniche e l’espansione coloniale hanno ridotto il Mediterraneo ad una sorta di (infido) lago interno. I grandi commerci non passano più da lì.

Lo splendore delle corti decisamente si appanna.
La gastronomia italiana è decisamente in ritardo, come in ritardo, ancora maggiore, è la cucina vera e propria. Mentre ci si dilunga a dissertare sull’arte di trinciare (il modo italiano, fin dal Quattrocento, codificato appieno nel Cinquecento, prevede di trinciare in aria, senza poggiare i cibi su un piatto o un tavolo) o di piegare le tovaglie e salviette, e prosegue la produzione di trattati sul reggimento della casa che assomigliano sempre più a modesti manuali di economia domestica, di arte cucinaria si parla ben poco.

E quando lo si fa, facendo anche sfoggio di magnificenza – come nel caso de “L’arte di ben cucinare et instruire i men periti in questa lodevole professione” di Bartolomeo Stefani, cuoco bolognese al servizio dei Gonzaga nella corte di Mantova nella seconda metà del Seicento (il trattato andò in stampa nel 1662) – la scenografia prevale con gusto barocco e raffinato sulla medesima arte dei sapori. Come nel caso dei tre banchetti da lui organizzati per onorare, nel 1655, “la Maestà della regina Christina di Svezia (...) ricevuta per tre volte dal Serenissimo di Mantova, mio signore e padrone, sempre regiamente”. Per inciso, Cristina, convertita al cattolicesimo, aveva abdicato l’anno prima al trono, ed era passata nel mantovano nel suo viaggio verso Roma, dove si stabilì.

Un trionfo mirato – come nota Massimo Montanari – “a soddisfare l’occhio più ancora della gola”; nell’illustrazione che ne fa lo Stefani, “al di là dei sapori ciò che balza in primo piano è l’architettura, la scenografia del pranzo, vera e propria rappresentazione teatrale”. Nel trattato di Stefani, al di là del permanere di una dominanza in piatti salati del gusto tutto rinascimentale di zucchero e cannella (in un connubio dolce-salato speziato e profumato che peraltro, come nota Giuseppe Maffioli, “sono la dolcezza e il profumo della Dominante [Venezia], una specie di garanzia di dignità conviviale, nel Veneto e nelle regioni limitrofe presenti tutt’oggi in molti piatti”. Nell’Arte di cucinare Stefani fornisce “avvertimenti” al Capo Cuoco (maiuscole sue) ed a “sotto cuochi, garzoni e guatteri” (sguatteri, in grafia moderna), e poi fornisce, insieme con le istruzioni per la scenografia e la messinscena del banchetto, un ampio ricettario dove la magnificenza dell’allestimento non nasconde i profumi e gli accoppiamenti di sapori del Rinascimento e del Medio Evo.

Come si vede nel caso del fegato di vitello ripieno, ricetta che riportiamo in Italiano modernizzato: si prende un fegato intero e si comincia svuotarlo con un coltello dalla parte dov’è più grosso [lasciando intera la parte esterna, che sarà poi farcita]; si trita quindi ed amalgama il fegato estratto con due once di lardo battuto, un po’ di erbette odorifere, tre once di midollo, tre once di “condito grattato” (?), un’oncia di pinoli, un’oncia e mezzo di uva passa; sale, zucchero, spezie diverse e due tuorli freschi; con questo composto ben lavorato si riempie il fegato e lo avvolge in una rete avendo cura di ungere bene il tutto con burro e di spolverizzarlo con sale, cannella e un po’ di zucchero. Si mette in un tegame unto di burro e fa cuocere sotto un testo, a fuoco lento, ungendo di tanto in tanto con burro perché non secchi, “e cotto che sarà lo servirai sopra un sugo di limoni”.

Molto rinascimentale anche la ricetta di fegatelli allo spiedo: niente a che vedere con quelli che, con varie denominazioni, sono molto popolari nelle Puglie: si usa sempre il fegato di vitello per farne fegatelli “involti in rete, con pane grattato, zuccaro, cannella, sale e pepe, e poi messo nello spiedo tramezzato di foglie di lauro [alloro], avvertendo non dargli fuoco gagliardo: cotto che sarà, si metterà nel piatto servito con succo di naranci [arance]”. Più accettabile per i nostri gusti la essenziale ricetta per il capriolo: la carne va fatta frollare per quattro notti al freddo; poi va battuta, steccata con garofano e cannella e si fa arrosto, “tenendola morbida con strutto”. Si serve con salsa di ginepro. Polenta di riso. Si mettono a bollire a fuoco lento in una casseruola 24 bicchieri di latte e mezza libbra di burro fresco; al primo bollore vi si versano due libbre di farina di riso stemperata con latte freddo, e si cuoce mescolando sempre “finché diventi tosta”; tolta dal fuoco, “con un cucchiaio d’argento bagnato nel latte piglierai bocconcini di polenta, accomodandola nel piatto con cascio parmigiano e butiro fresco”, spruzzando i bocconcini con acqua di rose, guarnendoli con altro formaggio e burro, spolverando di cannella macinata fine e servendo subito.

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