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Virgole Golose
08 Settembre 2024 - 06:18
Apicio
Nella storia della gastronomia e della cucina giganteggiano due personalità che sembrano riassumere, anche per la loro tragica fine e per gli echi letterari che ripercuotono tuttora, il senso di due epoche, l’antichità, col suo vertice, Roma imperiale, ed il mondo moderno, simboleggiato dall’età di Luigi XIV, il Re Sole.
Sono due nomi notissimi, il primo è diventato addirittura il cuoco per antonomasia, anche se forse “cuochi” in senso stretto non erano stati, e qualcuno ha messo in dubbio addirittura la loro stessa esistenza. Sono Apicio e François Vatel. Da un punto di vista storico, in realtà, i due sono incomparabili: di Apicio ne abbiamo addirittura tre, ed abbiamo un’opera fondamentale, De re coquinaria, della quale è ritenuto autore o dedicatario, ed ignoriamo anche praenomen e nomen (Marco Gavio, secondo molti, o Celio); di Vatel ignoriamo quasi tutto, probabilmente non era un cuoco, sicuramente fu maestro di palazzo di due personaggi molto importanti del secolo di Luigi XIV. E non scrisse trattati. Che cosa accomuna il gastronomo, ghiottone e buongustaio vissuto (il più noto dei tre) all’epoca di Tiberio ed il maestro di palazzo del sovrintendente generale delle finanze del Re Sole, Fouquet, e poi del principe di Condé? La morte per suicidio, che ne fece addirittura due simboli e li rese immortali quali “martiri” della gastronomia.
L’Apicio di età tiberiana, nel quale la maggiorparte della critica vede l’autore del primo nucleo del De re coquinaria, era un ricchissimo buongustaio (meno comunque di Lucullo, anch’egli celebre per la passione per l’opulenza del banchetto), amico del figlio dell’imperatore, Druso, ed amante di un giovanissimo Seiano. Pare che si dilettasse nell’inventare piatti, oltre che a codificarli e gustarli. Avrebbe perfezionato lui il metodo per ottenere il foie gras. Le immense ricchezze gli consentivano di alimentare le passioni culinarie: come quando armò una nave per recarsi in Libia, avendo sentito dire che ivi c’erano gamberi di inusitata grandezza; ma quando i pescatori libici lo raggiunsero sulla nave per offrirgli i più grandi che avevano, deluso perché erano più piccoli di quelli che gustava a Minturno, non prese nemmeno terra e se ne tornò in Italia.
Spese folli, ma fino ad un certo punto: nella gara per una triglia di eccezionale peso, messa beffardamente all’asta proprio da Tiberio, quando il prezzo era arrivato a cinquemila sesterzi rinunciò. Di tali aneddoti riferirono molti suoi contemporanei, o quasi, con tono acremente avverso, da Plinio il vecchio a Seneca (che lo detestava), da Tacito a Dione Cassio, Elio Lampridio, Giovenale (ed in seguito Ateneo, Tertulliano, Isidoro di Siviglia). Il più perfido è stato sicuramente Marziale, che, come Seneca, gode nel riportare l’exitus del gastronomo: “Sessanta milioni avevi sperperato / per soddisfar del ventre tuo le brame; / dieci milioni avevi accantonato / ma di soffrir temendo sete e fame / a trangugiar veleno ti sei indotto. / Non fosti mai, Apicio, così ghiotto”. I dieci milioni di sesterzi che Apicio considerava una miseria dovrebbero corrispondere grosso modo come potere d’acquisto ad un centinaio di milioni di euro.
Di Vatel sappiamo ancora meno (qualcuno ne ha messo in dubbio la storicità, ma la testimonianza di Madame de Sévigné, la regina del gossip del Grand Siècle, le cui lettere alla figlia vennero fatte circolare lei vivente, è inequivocabile): fu lui a sovrintendere al banchetto col quale Fouquet omaggiò Luigi XIV (così splendido che fu probabilmente concausa della sua caduta in disgrazia), fu lui che, maestro di palazzo del principe di Condé, si trovò a sovrintendere ai banchetti per il Re ed il suo numeroso seguito (oltre 3000 persone), che dovevano soggiornare tre giorni nel castello di Chantilly.
Vatel aveva pressoché esaurito le provviste, e doveva organizzare un banchetto per un venerdì: tassativamente di magro, e i pesci non si rinvenivano nei dintorni. Vatel spedì il giovedì messi nei porti, anche a grande distanza, per procurarsi il necessario. Il mattino dopo constatò che erano arrivate appena due ceste di pesci: “tutto qui?”, chiede al fornitore; “sì, signore”, risponde questi, riferendosi però solo al suo acquisto. Vatel fraintende; è disperato, “non sopravviverò a questo scandalo; ne va del mio onore e della mia reputazione”, dice al suo vice, Gourville, “che non lo prende sul serio. Vatel sale in camera sua – riprendiamo da una lettera della Sévigné – appoggia la spada alla porta e si trafigge il cuore; ma solo al terzo fendente cade a terra privo di vita, perché i primi due non erano stati mortali.
Nel frattempo arriva del pesce da tutte le parti e si cerca Vatel; vanno in camera sua, picchiano alla porta, la sfondano: lo trovano immerso in una pozza di sangue da tutte le parti” Fu lodato e biasimato per il suo coraggio e il suo gesto e il suo senso dell’onore, tanto dal principe quanto dal Re. Entrò decisamente nel mito, rinverdito da un recente film.
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