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Virgole Golose

La cucina, una storia tra tradizione ed innovazione

Lente acquisizioni, assimilazioni e “rotture”

La "pizza" nell'antichità

La "pizza" nell'antichità

La cucina procede per generalmente lente acquisizioni, spesso assimilazioni (fu facile accettare fra i prodotti americani i fagioli e le zucche, che erano molto simili agli analoghi vegetali europei, e che come essi furono preparati, fino magari a soppiantarli, tanto che oggi il fagiolo dall’occhio, il dolico, l’unico europeo, sopravvive a stento come specialità di nicchia, e tutti i fagioli coltivati e mangiati nel vecchio continente derivano da varietà americane; e qualcosa si simile è avvenuto, sia pure meno drasticamente, con le zucche); il contesto magari, ossia l’arte della tavola, può conoscere brusche rotture, ma l’ars combinatoria degli ingredienti ha una straordinaria persistenza; magari cambiano le tecniche di cottura (il XX secolo da questo punto di vista è stato davvero rivoluzionario), e di conseguenza talvolta anche la consistenza dei piatti, ma la giustapposizione degli ingredienti, la ricerca di una armonia “sinfonica” fra i vari gusti per crearne uno nuovo, dalle mille sfumature, non “passa di moda” rapidamente, anzi. In cucina, tradizione e innovazione convivono da sempre; e l’innovazione, quando non è fatta solo per sbalordire, entra poi – magari lentamente – a far parte della tradizione.

La pasta, per esempio. Se si prescinde dalle lagana dei Greci e dei Romani (con le quali si preparavano maestose teglie “al forno”, ma il cui uso principale era di essere tagliate, fritte e poi destinate ad ispessire minestre o ad essere dolcificate), la pasta quale noi la intendiamo – fresca, secca e ripiena – nasce nel Medio Evo. Non dico che sia “recente”, ma in una storia di lungo periodo quale è quella della gastronomia (cucina e tavola, testo e contesto) non è un “piatto” (meglio: una serie di piatti; una derrata) di grande antichità. Molto antichi sono invece certi accostamenti di sapori fra una derrata cerealicola (in Grecia e a Roma chicchi d’orzo; poi di frumento, per i più agiati), l’olio d’oliva, le erbe amare dell’orto o selvatiche ed una conserva di pesce. Se i chicchi di cereale li maciniamo, e con lo sfarinato prepariamo della pasta, con quegli accostamenti di sapori e di ingredienti otteniamo le oecchiette con le cime di rapa. Ma la pasta introduce anche un altro ingrediente, al quale oggi in Italia – il Paese nel quale è il piatto universale, presente in pressoché tutte le cucine regionali o subregionali – è associata nell’immaginario collettivo; un condimento “di tradizione” che purtuttavia, in un millennio abbondante di uso delle paste alimentari, le si è associato da poco più di un paio di secoli, dalla fine del Settecento (XVIII secolo, a scanso di equivoci, non VIII): il pomodoro.

Ortaggio americano, come ben si sa; a lungo coltivato solo come pianta ornamentale, e che fa timidamente capolino in cucina fra ‘600 e ‘700, e non ancora come salsa di pomodoro. Ma negli ultimi due secoli, con forte accelerazione da metà Ottocento, pomodoro e salsa di pomodoro sono diventati caposaldi della cucina tradizionale italiana. Un caso da manuale, si potrebbe dire, di innovazione ben riuscita. C’è un altro piatto che rappresenta l’identità italiana in cucina, ed è più antico della pasta; come la pasta e più della pasta ha conosciuto – specie a partire dal ‘900 – un successo planetario che ne ha fatto davvero il piatto universale, globale; tanto da poter competere con l’altro grande cibo globale che McDonald’s ha popolarizzato in tutto il mondo, il panino con l’hamburger: stiamo parlando della pizza. Una “specialità” talmente popolare negli Usa, per esempio, che una quarantina d’anni fa, durante un congresso internazionale di cucina, un americano chiese agli italiani se in Italiano ci fosse un termine per “pizza”. Pizza e focaccia, ovvero impasti di sfarinati ed acqua, lievitati o no, variamente cotti, sono ben noti nell’area del Mediterraneo da millenni.

Parenti del pane e delle gallette, anche. Differenti soprattutto nella consistenza. Ma poi destinati ad essere arricchiti da condimenti vari; e talvolta a fare da “piatto” per poggiarvi su carni, verdure ed altre cibi. Focacce o pizze di dura consistenza erano quelle sulle quali Enea e gli esuli troiani consumarono un pasto tanto frugale che, per la fame, e facendo avverare la maledizione dell’Arpia, divorarono anche le mense. Usanza che si protrasse nel Medio Evo, quando queste basse focacce sostituivano sovente i taglieri, ed imbevute dei sughi e condimenti venivano destinate all’alimentazione della servitù. Ha fatto scalpore la “pizza” con condimenti vegetali ritratta su un affresco pompeiano di recente scoperta, che il furbissimo (e bravo) Gino Sorbillo ha riprodotto con un certo successo, di gusto ma soprattutto mediatico; tanto che Sorbillo ha deciso di provocare l’opinione pubblica (attirandosi valanghe di insulti e di esecrazione, ma anche di notorietà e gratuita pubblicità) sfidando un tabù italiano: ovvero la pizza con l’ananas, considerata dagli Italiani una americanata di pessimo gusto (la famigerata pizza hawaiana). E la pubblicità mondiale non gli è mancata.

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