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Virgole Golose

Il primato della gastronomia nel Seicento

Dal “Libro de cocina” ecco gli “sgonfiotti”

Una tavola imbandita del Seicento in Francia

Una tavola imbandita del Seicento in Francia

Nel Seicento il primato della gastronomia e dell’arte coquinaria si sposta dall’Italia alla Francia; e vi rimarrà almeno fino al XX secolo. Ma nel Seicento, ormai, il mondo non è più limitato ad Europa, Asia, Africa. Dal fatidico 1492 della prima spedizione di Cristoforo Colombo, un Nuovo Mondo è entrato prepotentemente nelle carte nautiche e geografiche.

E’ in un certo senso, dal punto di vista politico e linguistico, una estensione della vecchia Europa, e in particolare dell’Europa latina. La Spagna domina l’America meridionale, quella centrale e buona parte di quelli che oggi sono gli Usa, oltre ad importanti isole; il Portogallo ha colonizzato il Brasile; la Francia possiede Luisiana, Quebec e molte isole delle Antille. In questo Nuovo Mondo, non molto documentata, all’inizio, sta nascendo anche una nuova cucina, ibrida tanto nelle metodiche (in larga parte comunque tenacemente “europee”) quanto negli ingredienti: perché nonostante il tentativo degli europei, spagnoli soprattutto, che hanno istituito un viceregno, la Nuova Spagna, di impiantare i vegetali e di importare gli animali del vecchio continente (una importazione particolarmente riuscita sarà quella dei cavalli; quelli fuggitivi si riprodussero talmente da dar vita a grandissimi numero di equini allo stato brado, coi quali imparano presto a familiarizzare gli “indiani”), è necessario utilizzare anche i prodotti locali. Per la seconda parte del Seicento abbiamo un prezioso documento, che pur con le sue poche ricette (conventuali, ma dedicate ai giorni di “ricevimento”: 37 in tutto, solo 10 delle quali non sono di dolci) ci illumina su questa ibridazione: il Libro di cucina di suor Juana Inés de la Cruz. Singolare personaggio: di umili origini, figlia illegittima, colta autodidatta, per un certo periodo dama di compagnia della viceregina di Nuova Spagna nella corte di Città del Messico, poi entrata in convento quale unica soluzione per non dover contrarre matrimonio, studiosa, scrittrice e poetessa nonostante i tentativi della gerarchia ecclesiastica locale di impedirle di studiare, e soprattutto di scrivere, era già diventata famosa, in Messico e in Spagna, quando nel 1695, a soli 46 anni (o forse 49, c’è incertezza sull’anno della sua nascita), dopo 27 anni di clausura, morì nel convento di San Gerolamo, vittima, come i nove decimi delle sue consorelle, di una epidemia di peste.

Nel tentativo di difendersi da una chiesa misogina che non tollera una donna – suora, per di più – con pretese intellettuali, Juana Inés accosta le sue investigazioni alla più rassicurante e donnesca pratica della cucina anche all’interno di una garbatissima ma polemica “lettera aperta” al vescovo di Puebla, che l’aveva attaccata sotto uno pseudonimo femminile (il testo di Juana Inés è la notissima “Risposta a suor Filotea”). “E che cosa non potrei raccontarvi, Signora, dei segreti naturali che ho scoperto mentre cucinavo? Vedo che un uovo si rapprende e frigge nel burro o nell’olio e, al contrario, si frange nello sciroppo; vedo che affinché lo zucchero si conservi fluido basta aggiungervi pochissima acqua in cui stata immersa una cotogna o altri frutto aspro; vedo che il tuorlo e l’albume di uno stesso uovo sono di natura così contraria che possono essere lavorati con lo zucchero separatamente ma mai insieme. Non voglio comunque recarvi noia con tali inezie; ma, Signora, che cosa possiamo mai sapere noi donne se non filosofia da cucina? Aveva ragione Lupercio Leonardo, secondo cui si può benissimo filosofare e preparare la cena. E io aggiungo spesso, pensando a tali bagatelle: se Aristotele avesse cucinato, avrebbe scritto molto di più”. E veniamo al “Libro de cocina”, manoscritto malamente ricopiato pochi anni dopo la morte della suora. Si apre con un sonetto dedicatorio e parte poi con ricette esposte in modo sintetico.

Sgonfiotti al formaggio: si impastano bene una libbra di farina, mezza libbra di burro fuso e sei formaggelle fresche (lavorate presumibilmente nel mortaio: devono essere mantecate, dice suor Juana Inés); l’impasto si stende col mattarello, tagliandolo con una tazza se ne ricavano dischi che si friggono. Variante di sgonfiotti alla ricotta: si impastano bene una libbra di farina, mezza di ricotta, 6 tuorli ed un panetto di burro, si tira col matterello, se ne ricavano dischi e si friggono. Più complessa ed elaborata la ricetta degli sgonfiotti di vento: in una casseruola si porta a bollore acqua aromatizzata con anice facendovi sciogliere del burro; quando bolle si versa a pioggia la farina (una libbra), si mescola per evitare che si raggrumi e si fa addensare; quando l’acqua sarà tutta assorbita (“allorché si sarà formata come una palla”, scrive la suora) si trae l’impasto dalla casseruola e lo si fa raffreddare; quindi si impasta con 9 uova intere e si lavora molto bene, incorporando un po’ di burro fuso. Con una posata d’argento si buttano cucchiaiate del composto in una padella con burro bollente, alzando la fiamma perché gli sgonfiotti vengano ben dorati.

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