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Virgole Golose
08 Ottobre 2023 - 06:45
Una cucina del Seicento
Che cosa succede alla cucina nel Seicento (XVII secolo, beninteso, non VII)? L’Italia, come abbiamo già notato, perde il primato, e si afferma il dominio francese, che resisterà in sostanza almeno fino al XX secolo Col Seicento, dopo la cucina medievale e quella rinascimentale, comincia la cucina moderna. I prodotti americani cominciano a far capolino in cucina e sulle tavole “illustri”.
Il tacchino è stato adottato subito; il mais gode ancora di uno status dubbio (è più usato come foraggio o come succedaneo povero di altri cereali per l’alimentazione contadina); patata e pomodoro sono ancora piante ornamentali considerate (non del tutto a torto) tossiche; il peperoncino si è diffuso come “spezia dei poveri”, perché può essere coltivato in loco e non necessita di importazione, in alcune aree come la Spagna e l’Italia meridionale; ma il prodotto americano di grande successo è il cacao, col quale in Europa (importandone beninteso i semi) si prepara la cioccolata (quella che Francesco Redi, scienziato e letterato di gran fama nonché custode di una ricetta segreta del Granducato mediceo, chiama “cioccolatte”): che è una bevanda spumosa, come in America, ma a differenza dell’America non è aromatizzata col peperoncino e ispessita col mais ma aromatizzata con vaniglia e fiori come il gelsomino e soprattutto dolcificata con lo zucchero, la “spezia” (tale è considerata) di maggior successo nel XVII secolo, un secolo che vede tramontare il gusto per le spezie tradizionali, in nome della dolcezza (non c’è solo lo zucchero; si cominciano ad usare massicciamente anche i fiori più profumati, e soprattutto in cucina si fanno strada le erbe aromatiche, magari accoppiate nei mazzetti odorosi, la cui paternità è generalmente attribuita a La Varenne), e vede anche tramontare le salse a base acida che avevano caratterizzato il Medio Evo, e che erano sopravvissute nel Rinascimento; il tono agro è dato semmai dai succhi di limone, d’arancia amara, di melagrana; ma adesso le salse sono emulsionate, quasi “dolci”, col burro che prende sempre più piede.
E meno “rustiche”: non sono più legate col pane, ma col roux. Anche le fino ad allora neglette verdure, che i Francesi chiamano per sineddoche tutte insieme “légumes”, trovano un posto d’onore nella gastronomia: le primizie, soprattutto, siano esse i pisellini verdi, per i quali impazzisce l’aristocrazia francese, o i carciofini. E’ anche il secolo delle marmellate, delle confetture, delle gelatine, dei confetti, dei sorbetti e dei gelati, così come della crema di latte e di un’altra bevanda d’importazione (non americana, stavolta), perché la pianta con i cui semi torrefatti si prepara non cresce in Europa: il caffè. Anche il tè si fa strada, costosissimo ed appannaggio in Francia dell’alta società: ma si diffonderà maggiormente in Inghilterra, Russia e Paesi del Nord (in Italia sarà ignorato). Sul finire del Seicento, ma sarà perfezionato e si imporrà solo nel secolo seguente, nell’abbazia di Hautvillers un monaco benedettino il cui nome diverrà celebre, Dom Pérignon, sperimenta la doppia fermentazione, con aggiunta di una “liquer” (in Francese è femminile), che rende di gradevole effervescenza (l’effervescenza era considerata un difetto, perché inclinava alla fermentazione acetica...) i vini della Champagne.
La cucina francese del Seicento tende poi a “separare” i sapori; il dominio della Medicina sulla cucina si è molto allentato, e l’arte combinatoria di spezie ed altri condimenti legata alla medicina umorale non è più necessaria; il gusto prevale sulle finalità dietetiche. Non è solo La Varenne a teorizzare questa rivoluzione: il suo contemporaneo Nicolas de Bonnefons, valletto di camera di Luigi XIV, dichiarerà esplicitamente che “il potaggio di cavoli deve sapere completamente di cavolo, quello di porri di porro, quello di rape di rapa, e così via”. Non solo: sarà Bonnefons a raccomandare di cuocere i legumi (nel senso che intendiamo noi) con tutto il baccello, per sgranarli dopo la cottura; metodo indispensabile per gustare i piselli verdi freschi dei quali il Re Sole era ghiottissimo. Il manuale di François Pierre, detto La Varenne, il Cuciniere francioso (o il Cuciniere Francesco, secondo altra traduzione), si distingue non solo per l’abbondanza di ricette di ortaggi, per la diminuita quantità di spezie, per le salse più vellutate e non più acide e speziate, per la forte presenza di zucchero, ma anche per l’impostazione metodica, sistematica, quasi didattica; “cartesiana”, si spingerà a definirla, come tutta la nuova cucina francese, qualche storico della gastronomia (soprattutto francese).
Di sicuro, quella di La Varenne, di Bonnefons, e dell’anonimo L.S.R., che pure con La Varenne polemizza ferocemente, è una gastronomia nuova, metodica, che forte del primato politico, militare, culturale della Francia si imporrà a livello europeo; e non entrerà in crisi nemmeno dopo gli sconvolgimenti del 1789, ed anni seguenti, che seppelliranno per sempre l’Ancien Régime.
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