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Virgole Golose

Pasta, la lunga storia delle orecchiette

Un piatto identitario della cucina pugliese

Le orecchiette

Le orecchiette

Se dovessimo individuare un piatto identitario della cucina pugliese non c’è dubbio che dovremmo parlare delle orecchiette, universalmente diffuse, sia pure con lievi varianti nelle dimensioni e nelle denominazioni, dialettali o in lingua, in tutta la Regione, come nella viciniore Basilicata.

A rigore, peraltro, le orecchiette non sono un piatto ma una tipologia di pasta fresca di semola di grano duro (quelle industriali di pasta secca che ne richiamano vagamente la forma non hanno niente a che vedere), prevalentemente artigianale o casalinga, che viene tradizionalmente preparata con due condimenti molto differenti (a parte le variazioni sul tema, che possono anche essere interessanti, come le orecchiette col foie gras proposte da Cracco): al pomodoro, con cacioricotta; con le cime di rape (al plurale, come dicono in Puglia). Quelle al pomodoro possono prevedere una salsa di pomodoro fresco e basilico oppure il similragù nel quale, dopo la rosolatura iniziale, è proseguita la cottura degli involtini e/o delle polpette.

Quelle con le cime di rape vedono la presenza di acciughe sott’olio soffritte in olio, aglio e spesso peperoncino. Un piatto “antico”? Sì e no. Tipicamente pugliese? Bisogna intendersi sulla “tipicità”, ma sostanzialmente sì. Cominciamo col dire che le orecchiette al pomodoro sono “recenti”, perché prima della fine del ‘700 il pomodoro non aveva cittadinanza in cucina, e le salse di pomodoro si affacciano all’inizio del XIX secolo. Quelle con le cime di rape sono venute indiscutibilmente prima. Ma quanto prima? Le strutture del gusto sono di lunga durata; evolvono, beninteso, e talora conoscono fratture, ma tendenzialmente, come quelle linguistiche, più di quelle linguistiche, sono conservatrici. Soprattutto nelle combinazioni di sapori. I Greci, per esempio, consumavano fra i cereali soprattutto orzo (il frumento era di lusso): ne facevano un pane, la màza, che era una specie di piadina poco o niente lievitata e soggetta a rapido indurimento, ma soprattutto ne facevano ministre o pappette lessandolo (ed eventualmente schiacciandolo e addirittura filtrandolo), che chiamavano “ptisàne”. Il decotto era utilizzato soprattutto in medicina, mentre la minestra di chicchi d’orzo veniva variamente condita: con l’olio d’oliva, il contrassegno della civiltà ellenica, e con le economicissime erbe amare, spontanee o dell’orto, per aggiungere sapore.

Chi poteva, ci aggiungeva anche qualche goccia di garon, la famosa/famigerata salsa di pesce che i Romani chiameranno garum, dall’intenso sapore (in sostanza, al di là delle leggende nere e delle condanne dei moralisti alla Plinio, si trattava dell’antenato della colatura di alici). Quando i Greci fondarono le loro città nelle fertili terre d’Occidente, in Italìa e Sikelìa, sostituirono al rustico orzo il più pregiato frumento: tanto nella panificazione (col grano duro, in particolare, si produceva il pane ben lievitato, àrtos; che a Taranto ebbe un nome, forse di derivazione messapica, destinato a fare molta strada: panòs) quanto nelle minestre. La ptisàne magnogreca era dunque a base di chicchi lessati di frumento, olio d’oliva, erbe amare ed una conserva di pesce, il garon.

Una associazione di ingredienti e sapori che resisterà nel corso dei secoli; con una svolta nella consistenza a partire dal Medio Evo. Quando “nasce” la pasta destinata alla lessatura (inizialmente anche alla frittura ed alla cottura in forno, proprio come il laganon dei Greci, laganum dei Romani; al plurale lagana in entrambe le lingue; una sfoglia che però non era mai lessata), tripartita in pasta fresca, pasta secca e pasta ripiena. La pasta si fa con la semola di grano duro, più ricca di glutine rispetto alla farina di grano tenero e quindi più adatta tenere insieme l’impasto; per evitare che un impasto di farina si disfaccia è necessario utilizzare come agente legante l’uovo, ma la pasta all’uovo è molto più costosa da produrre. Nell’Italia meridionale e in Sicilia, comunque, regna il grano duro, ed è quindi con la semola che si prepara, anche in casa, la pasta fresca. Ed è con semola ed acqua che si preparano le famose orecchiette: dischetti di pasta pazientemente incavati, uno ad uno, con un colpo di pollice, e destinati alla lessatura.

Con che cosa condirli? Erbe amare, come i fiori ancora chiusi ed i germogli e qualche foglia di un particolare ortaggio; olio d’oliva, abbondantissimo in Puglia; e, persistenza del gusto, una conserva di pesce: non più l’ormai introvabile garum (lo producono ancora a Bisanzio, e ne arriva un po’ in Occidente, ma è ormai in disuso) ma le più modeste acciughe sott’olio. Ecco le orecchiette con le cime di rape. E i crosets/corzetti provenzali e liguri? Intanto sono una pasta all’uovo (e basterebbe questo), e poi i loro antichi condimenti sono una salsa di formaggi o il connubio burro/maggiorana/pinoli. No, non vengono dalla Provenza, attraverso un fantasioso passaggio nella Napoli angioina (a Napoli non le hanno mai viste), le orecchiette pugliesi.

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