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Virgole Golose

Il Medio evo e le tante declinazioni del gusto

Un periodo storico particolarmente complesso

Un banchetto del Medio Evo

Un banchetto del Medio Evo

Si fa presto a dire Medio Evo, abbiamo osservato più volte. Anche “limitatamente” alla cucina ed alla gastronomia. Quando, nell’arco di un migliaio di anni? E dove, sia pure limitatamente ai tre continenti allora conosciuti, Europa, Asia, Africa?

Ricordiamo subito che dell’Alto Medio Evo, col crollo dell’Impero romano d’Occidente e la nascita dei precari regni romanobarbarici sappiamo poco: altomedievale è quell’estratto di ricette, una sorta di appendice ad Apicio, attributo ad un certo Vinidarius, che fotografa ricette di V secolo d.C., ma ancora nel solco della tradizione romano-imperiale. Altomedievale (VI secolo) è anche l’epistola che il medico bizantino Antimo, esule in Occidente alla corte di Teodorico re dei Goti, e da questi inviato come ambasciatore presso un re dei Franchi, anch’esso di nome Teodorico, redige in uno stentato Latino (la sua lingua d’origine era il Greco, ma in Occidente non lo capiva più nessuno, e il Latino restava l’unica lingua con la quale i vari gruppi etnici barbarici potevano comunicare tra loro) come trattatello di dietetica, che però, per nostra fortuna, a differenza del ben più noto, ampio ed ampliato nel corso dei secoli Regimen sanitatis della Schola salernitana, contiene anche un piccolo nucleo di “ricette” vere e proprie.

Intitolato “De observatione ciborum” ci presenta già una cucina che si sta discostando da quella di Apicio e Vinidarius (e, si legge tra le righe, differente anche, in quanto adattata ai gusti ed alle usanze dell’Occidente, da quella di Costantinopoli). Contiene infatti consigli nutrizionistici e abbozzi di ricette, oltre a notazioni sulle qualità degli alimenti, e sulle cotture più adatte, legate alla dottrina degli umori ma anche alla visione ippocratica che lega il “regime” (non solo alimentare) anche alla natura dei luoghi. In disaccordo con gli usi di Bisanzio, dove il garum continuò a godere di ottima reputazione fino alla caduta dell’Impero, nel XV secolo, il bizantino Antimo non ama peraltro la salsa di pesce che Greci e Romani ebbero in gran pregio; ma dalla sua epistola, così come da registri di spesa, sappiamo che il suo uso resisteva nel VI secolo (ed oltre) anche ad Occidente, fra i Goti ed i Franchi; solo che in Italia e Francia non si produceva più, lo si importava da Costantinopoli, a caro prezzo (e probabilmente a quei barbari veniva pure rifilato un prodotto di scarto). Per il resto, la cucina di Antimo è – a parte le complicazioni di alta cucina, completamente scomparse – in linea con tendenze di quella apiciana; per niente, invece, con quella che ritroveremo fra XIII (forse anche XII) e XIV secolo in Scandinavia, Italia, Catalogna, Francia, Inghilterra e Germania; la “vera” cucina medievale, dove c’è anche una certa influenza araba. Vivendo in mezzo a barbari che però non può certo chiamare così, Antimo nella lettera al re dei Franchi si destreggia fra il suo retaggio ideologico e scientifico greco (infatti scrive spesso “noi Greci”) e la necessità di non disprezzare le usanze di Goti e Franchi.

Come il consumo di lardo crudo, giustificato come una sorta di ricorso alla medicina naturale più che alla gastronomia (per un greco cibarsi di carni crude è un atto più bestiale che umano), di carne vaccina, poco consumata nel mondo classico, o il bere birra, bevanda tenuta per vile dai Greci in ogni tempo. Antimo passa in rassegna numerose carni, che suggerisce di preparare in lesso, stufato o “al vapore”. In alcuni casi dà ricette vere e proprie; come quella per la carne vaccina “in iuscello”, ovvero stufata “in un sughetto”. Sbollentata in acqua, la carne si mette in una pentola con aceto forte, miele, teste di porro, mentuccia, radice di sedano o finocchio e si fa stufare per un’ora. Si pestano quindi nel mortaio pepe, chiodi di garofano, costo e lavanda, si stempera in vino e si versa in pentola, amalgamando bene il vino speziato con la salsa di cottura. Verso fine cottura s’aggiunge altro miele o vincotto. Il sale non figura, o è saltato. Fra gli indispensabili pesci – alimento obbligato nei giorni di magro, siamo ormai in era cristiana – Antimo, come i successivi autori del Basso Medio Evo, privilegia quelli d’acqua dolce, più facilmente reperibili, ma si sofferma poco, ed ha una ricetta per il “pecten”, un mollusco marino bivalve che è con ogni probabilità la cappasanta, da lessare o arrostire nelle sue valve.

Una cottura citata da Aristotele, che suggeriva di cuocere alla griglia le cappesante nella loro conchiglia e di cospargerle poi con aceto, per temperarne la dolcezza. I ceci, cotti fino a disfarsi, si condiscono con olio e sale. Il melone ben maturo va condito con posca (miscela d’acqua e aceto) aromatizzata con puleggio (erba aromatica conosciuta anche come mentuccia), in ossequio al necessario “temperamento” richiesto dalla medicina umorale. Il piatto forte è l’afratus, o spumeum: una spuma di albumi montati a neve e pollo (o pesce, come a Bisanzio) cotta al vapore, non altrimenti documentata. Di pasta e torte non v’è traccia.

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