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Virgole Golose

La cucina dei primi secoli del Principato di Taranto

Viaggio tra storia e gastronomia

Una cucina medioevale

Una cucina medioevale

Sire Boemondo, fra una spedizione e l’altra ci facciamo un piatto di pasta? No, non è un errore come quello dei legionari romani che sfilano nei film mitologici con l’orologio al polso. E Boemondo è proprio lui, il Principe di Antiochia, Signore di Taranto, figlio primogenito di Roberto il Guiscardo, al fianco del quale aveva tentato addirittura la conquista dell’Impero romano (d’Oriente), e che tuttavia gli aveva preferito il figlio di secondo letto Ruggiero Borsa quale erede.

Boemondo, come i suoi consanguinei che si erano impadroniti del trono inglese, e a differenza di quasi tutti gli europei di XI secolo (Catalani esclusi), mangiava la pasta. Certo, come tutta la nobiltà europea preferiva le carni, magari con accompagnamento di robuste salse che scomparvero dopo il tramonto del Medio Evo, come la celeberrima “camelina”, dal forte aroma di cannella, già in voga quando i Normanni si chiamavano ancora Vichinghi e stavano in Scandinavia, ma la pasta era tenuta in gran reputazione fra i Normanni, per quanto – la forchetta ancora non era apparsa – fosse difficile mangiarla. Ma l’ingegno italico aveva provveduto, in anticipo sull’utilissimo strumento ideato a Bisanzio: Boemondo, e poi i Principi di Taranto, avranno mangiato le lasagne, cotte in acqua bollente salata (dei maltagliati quadrati di tre dita di lato) e servite in capaci scodelle, a strati inframmezzati da abbondantissimo formaggio grattugiato e spezie in polvere (le spezie fini piuttosto che le spezie forti o quelle dolci: quindi pepe nero, cannella, zenzero, zafferano e chiodi di garofano), arpionandole, come suggerisce il Liber de coquina, con un punteruolo ligneo.

Particolare notevole, che si perderà presto: questa pasta fresca, stesa ben sottile, è pasta fermentata. Anche se la scienza medica dell’epoca esaltava le virtù dei volatili (inclusi quelli da cortile, di volare incapaci) per una loro costituzione “aerea” che li rendeva adatti ai nobili, per trar vigore i nobili anche se ormai dirozzati rispetto dall’Alto Medio Evo amano ancora la selvaggina di pelo e le carni rosse. Hanno imparato a mangiarle più cotte, magari sottoposte ad una prima, leggera lessatura (che tra l’altro le “ripulisce”), prima di cuocerle allo spiedo; le mangiano con le mani ma si aiutano coi coltelli; e ne inzuppano i pezzi nelle salse (quando non le brasano in salsa). Diamo qui una delle innumerevoli ricette di camelina: preparare un latte di mandorla pestando bene mandorle spellate nel mortaio aggiungendo acqua goccia a goccia e filtrando il liquido ottenuto. Nel frattempo far rinvenire uva passa senza semi in acqua tiepida ed ammollare mollica di pane; pestare bene nel mortaio e far amalgamare uvetta, pane, molta cannella, un po’ di chiodi di garofano; aggiungere il latte di mandorla, stemperare con agresto mescolando bene. Un po’ più elaborata la camelina francese per l’inverno del Mesnagier: si stemperano in vino cannella, zenzero, garofano, zafferano e noce moscata; si pesta mollica bagnata, si stempera con vino e si passa alla stamigna; si aggiunge il vino speziato e si fa bollire; a fine cottura si zucchera. D’estate non si porta a bollore.

Il Principato di Taranto

Una delle versioni più antiche non si chiama camelina ma salsa per il Signore (dal manoscritto K scandinavo): prima di essere ammollato e pestato nel mortaio, il pane viene grigliato; ricco l’assortimento di spezie, sciolte nell’aceto: cannella, soprattutto; poi noce moscata, pepe, zenzero, cardamomo, garofano. La “famiglia” dei libri (area italiana) imparentati col Liber de coquina propone una camelina resa più forte dall’aglio. E’ indicata per selvaggina di pelo e di piuma. Per ogni tipo di carne, specie i grandi arrosti, è adatta la piperata: si trita nel mortaio pane abbrustolito inzuppato di aceto o di brodo di carne, incorporando zafferano e pepe tritato; si stempera in aceto e brodo e si mette a bollire; per un colore nero più intenso si aggiunge pane bruciacchiato e non si mette lo zafferano. Non cibo per tutti, ma certo per i nobili, già nei primi anni del Principato riscuotevano successo i pavoni: non necessariamente rivestiti del piumaggio e dotati di uno stoppaccio di cotone imbevuto di canfora ed alcool ed infiammabile nel becco (apparirà un po’ dopo, riservato a cerimonie solenni come il “giuramento del pavone”): mentre rosola sullo spiedo, se ne raccoglie il grasso che cola in una leccarda e se ne fa una salsa colorata con zafferano e resa agrodolce con succo di limoncelli e zucchero, ispessita con mollica di pane (in una versione lavorata con rosso d’uovo e farina) soffritta nel lardo fresco e generosamente speziata (pepe, pepe lungo, zafferano, garofano, noce moscata). Similmente si prepara l’oca.

Più spesso di altri nobili europei, i nostri mangiavano verdure; come le cime dei cavoli all’uso dell’Imperatore: lessate con la carne, estratte insieme coi pezzi di carne e raffreddate con acqua, rimesse in pentola con brodo e finocchi, sottoposte a seconda bollitura, ed ancora riscaldate un po’ al momento di servire.

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