Trecentocinquanta album in studio. Trentaquattro con la sola Mina, di cui è il musicista di fiducia. Collaborazioni a tutto andare nel jazz e nel pop, da Chet Baker a Billy Cobham e Lee Konitz, proseguendo con Armando Trovajoli e Lelio Luttazzi, Fabio Concato e Fiorella Mannoia. Abbiamo incontrato Massimo Moriconi, bassista e contrabbassista fra i più celebrati, a San Giorgio Jonico, ospite con Emilia Zamuner della prima rassegna “Not(t)e di jazz fra i vicoli” a cura dell’Amministrazione comunale e della Pro Loco. Moriconi, c’è ancora spazio per la musica “live” o, come si dice, non ci sono più le occasioni e i concerti di una volta? «Il lavoro è in calo in qualsiasi settore, la musica non fa eccezione. Un’invasione di altre cose ci ha messo poco a costringere in un angolo il jazz, una musica non per tutti. La musica, però, è come l’amore: sopravvive a qualsiasi moda. Bisogna “faticare” un po’ di più, ma suonare è sempre un bel lavoro». Più o meno cinquant’anni di attività, fra orchestre, sale di registrazione, teatri e studi televisivi. Cosa la spinge a nuovi progetti? «Facile parlarne, siamo in due, io ed Emilia Zamuner. Abbiamo pubblicato insieme “Doppia vita”, album per voce, contrabasso e basso elettrico. Ci siamo conosciuti al “Premio Massimo Urbani” vinto da lei tre anni fa, è stato subito feeling. Emilia, oltre ad avere tutte le qualità di una cantante, ha una cifra improvvisativa straordinaria, timbri pazzeschi e, non è un dettaglio, esprime sempre positività. Quando suono la musica provo a farla “arrivare” al pubblico, sono contrario alle facce tristi che mettono malinconia. Forse avevano ragione negli Anni 40, quando certa musica era ostacolata da concetti come il razzismo. Oggi è tutto cambiato. Allora, facciamo i bravi, cerchiamo di ascoltarci e proviamo a non discriminare. Il jazz, poi, negli ultimi anni ha preso da altri generi, dunque basta che sia musica bella. Vero che Emilia può essere considerata il mio fiore all’occhiello, ma l’occhiello – che poi sarei io – senza fiore non serve a niente. “Doppia vita” è improntato sulla rivisitazione di canzoni italiane e internazionali, brani di vario genere realizzati in questa formazione, un duo, voce e basso…». Emilia, quanto pesa lavorare con un artista che ha realizzato decine di album con Mina, “la voce”? «Inizialmente pesava, del resto ero al cospetto di un gigante. Massimo, invece, è stato così bravo da mettermi subito a mio agio manifestando l’umiltà dei grandi. Per la voglia che ha ancora di fare, mi sembra quasi un bambino mai stanco di giocare. Un progetto basso e voce, può sembrare singolare, ma è anche il modo più essenziale per spiegare la musica attraverso le “toniche”. Nelle mani di Moriconi, queste diventano armonia aperta a mille esplorazioni attraverso contrabasso e basso elettrico, e una voce, la mia, senza effetti. Penso sia stata la spontaneità a farci diventare amici». Zamuner, c’è stato un momento in cui hai dovuto dare fondo all’improvvisazione? «Il momento improvvisativo più bello della mia vita? Durante la registrazione dell’album, cantavo “My funny Valentine”: presa dall’emozione ho scambiato le parole del testo, ma non mi sono fermata; non so per quale strana alchimia, ma in quel momento le nostre menti si sono perfettamente sincronizzate, eravamo sullo stesso canale, come se avessimo contemporaneamente schiacciato “play”; infine Massimo ha deciso che quel momento dovesse vivere in quel modo e così è stato». Massimo Moriconi, ci sono compagni di viaggio con cui ha stabilito più feeling? «Si chiamano amici, una ristretta cerchia di persone con cui ho modo di confrontarmi senza ipocrisie; con questi non devo stare attento ai toni, ai modi. Gli amici sono quelli che mi assomigliano più di altri: amano tutta la musica e, soprattutto, non sono “talebani”; questi ultimi li sopporto a patto che non dicano che chi non è come loro non va bene, questo aspetto mi “romperebbe” un po’, anziché no…». In Puglia, un’icona, Nicola Arigliano. «Ci ho suonato vent’anni, sento ancora l’odore dell’aglio che mangiava in continuazione; uno spicchio dietro l’altro come fossero caramelle: se ne riempiva le tasche, non c’era verso di fargli cambiare abitudine. Un grande, una delle poche voci maschili nel jazz, una rarità…». Il suo rapporto professionale con Mina, in studio. Cosa le chiede tutte le volte? «Che io suoni come mi sento di suonare. E’ la cosa più bella che lei mi ha permesso di fare in tutti questi anni. Dunque, il rispetto da parte mia nei confronti della stella più grande del nostro firmamento musicale diventa doppio. Mina ha fatto la storia non solo come cantante: è stata la prima a fare dance, videoclip, prima a presentare, qualità che l’hanno distinta dal resto degli artisti; purtroppo per anni è stata perseguitata per avere avuto un figlio da un uomo sposato». Qualche volta le ha parlato dei motivi che l’hanno allontanata dal pubblico? «Nel ’78, suonavo con lei: disse di essersi “rotta” del fatto che la gente mettesse le mani solo nel suo privato invece di giudicarla come cantante. Così si è ritirata. Mina è persona con gli attributi, suonare con lei e coltivare un rapporto di amicizia straordinario è qualcosa che non si può raccontare: è la cosa più bella che mi sia capitata nella vita da quando faccio questo mestiere. Io poi sono italiano, da ragazzetto ascoltavo Mina, giovanissima, e già l’amavo”. Non le ha mai parlato di un possibile ritorno. «Mai, fra amici si parla di altro, a meno che non siano gli stessi a parlarti di cose così troppo personali. Non sarò certamente io a chiederle cose, credo sia materia troppo delicata. Poi gli argomenti di conversazione non mancano, con Mina puoi parlare di tutto, vera signora e grande professionista: quando è in studio mette la massima attenzione in quello che fa; ha le idee chiare: il risultato finale deve essere quello che ha in mente e non un altro. Proprio come il primo giorno che l’ho incontrata, sarà anche per questo motivo che lei è Mina, donna di parola: quando decide una cosa è quella e basta». Arrivato da Roma, deve già ripartire. Qual è la molla che la spinge ancora a fare mille chilometri, fra andata e ritorno, per suonare un’ora? «Mi sento giovane. Come quando avevo quattordici anni, se una cosa mi piace faccio anche tremila chilomentri, se non mi piace non faccio nemmeno tre metri…».
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