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L'analisi

“Antimafiosi di professione”, una riflessione sul potere delle procure e la retorica della legalità

Un’analisi che, partendo dalla lezione di Leonardo Sciascia, mette in discussione il sistema italiano dell’antimafia: troppi organismi, confini sfumati tra accusa e giudizio, abusi nelle procure e una cultura della “percezione” più che dei fatti

Avvocati in aula

Avvocati in aula

Vorrei, sommessamente, far rilevare che mi sono sempre ispirato alla lezione di Leonardo Sciascia che in uno storico articolo sul Corriere della Sera del 26 gennaio del 1987 concluse che in Italia esistevano “I professionisti dell’antimafia”. Alle considerazioni e alle conclusioni da lui formulate ne aggiungo delle altre visto il tempo intercorso.

Prima considerazione: in Italia dal lontano 1962 esiste “La Commissione Parlamentare antimafia” formata da 25 deputati e 25 senatori; in Sicilia l'Assemblea regionale siciliana ne ha istituito una analoga la “Commissione regionale antimafia” dal gennaio 1991 composta da 15 membri del Consiglio regionale; senza dimenticare che vi sono la D.I.A. Direzione Investigativa Antimafia, un organismo di polizia giudiziaria a Roma e 24 uffici periferici; la D.D.A. Direzioni Distrettuali Antimafia, sono un pool di magistrati all’interno delle Procure con 26 distretti di Corte d'Appello; i R.O.S. come un Raggruppamento Operativo Speciale con competenza centralizzata sulla criminalità organizzata e sul terrorismo; la D.N.A.A., Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo con 20 magistrati del pubblico ministero che sono i sostituti procuratori nazionali antimafia; infine c’è il Procuratore Nazionale Antimafia e, sicuramente, i nostri servizi segreti. Un vero e proprio esercito! Di solito le Commissioni d’inchiesta durano alcuni mesi al massimo un paio di anni invece, dopo tanti decenni, sono sempre lì senza aver ancora concluso i propri lavori in modo positivo e definitivo.

Seconda considerazione: l’incontro tenuto all’ONU, lo scorso 15 ottobre, ha visto la partecipazione del procuratore della Repubblica di Napoli dr. Nicola Gratteri che, a differenza degli Stati Uniti e di tantissimi altri Paesi nel mondo, è un magistrato mentre in molti altri è semplicemente “l’avvocato dell’accusa” che ha gli stessi poteri e limiti della “difesa” e non vince nessun concorso ma, se non erro, viene eletto. Da noi, purtroppo, è anche magistrato per cui i limiti e i confini non si distinguono e che generano una serie di conflitti di interesse incredibili per cui siamo arrivati al punto che è l’accusato a dover dimostrare la propria innocenza e non l’accusa le sue responsabilità, infatti la Corte europea ha condannato, nel febbraio scorso, l’Italia perché inverte l’onere della prova.

Terza considerazione: come ha evidenziato un articolo del Foglio a firma del collega Ermes Antinucci Arrestati, processati e assolti: continuano i flop di Nicola Gratteri” che, spesso e volentieri ha arrestato e, in fase dibattimentale, molti sono scagionati e successivamente assolti. Ed è strano che partecipando un rappresentante autorevole della Fondazione Magna Grecia al cui interno ci sono fior fiore di giuristi, non si avvedano e si battano per ridurre lo strabordante potere delle procure in Italia.

https://www.ilfoglio.it/giustizia/2023/11/16/news/arrestati-processati-e-assolti-continuano-i-flop-di-nicola-gratteri-5908589/ .

Quarta considerazione: gli abusi delle procure continuano ininterrottamente dal 1992 e, a dimostrazione di quanto prima riportato, proprio l’altro giorno sono state confermate le condanne per i Pm “De Pasquale e Spadaro” per il caso dell’Italiana ENI in Nigeria con alcuni anni di dibattimento generando perdite di lavori e immagine per la più grande holding italiana dell’energia. I giudici di Brescia, in primo grado avevano motivato pesantemente la condanna: per il Tribunale, la scelta di non depositare quelle prove fu frutto di un “preciso calcoloper non indebolire l’accusa, frutto di una «selezione ragionata» delle sole prove utili alla propria tesi e di un approccio «autoreferenziale». Per dirla più semplicemente: avevano solo nascosto le prove che dimostravano la totale innocenza dei loro indagati e a seguito di ciò “condannati a solo otto mesi” (sic!).   

Quinta considerazione: è normale che un avvocato dell’accusa, da noi magistrato, tenga trasmissioni televisive dall’altisonante titolo “Lezioni di mafie”? Se non ricordo male i pubblici dipendenti non possono lavorare contestualmente col privato a meno che l’attuale “Telekabul” ovvero La7 ne sia stata dispensata. Senza dimenticare le visite nelle scuole in cui spiega cosa sono le mafie ai giovani studenti. Senza dimenticare interviste alla stampa e alle Tv.

Da tutto ciò nasce la Sesta considerazione: ma quanto tempo rimane per la sua meritoria e prolifica guerra alle mafie?

Ottava considerazione: lo sbarco all’ONU del dr. Gratteri e dell’on. le Colosimo in un convegno dall’altisonante titolo “Organized crime in the social media age” in cui la Presidente dell’Antimafia ha lanciato “vigorosi allarmi” al mondo il ruolo primario della “camorra” nei social e del rilevante ruolo delle donne. Il dr. Gratteri, invece, ha affermato che non sa se fra qualche anno saremo ancora alleati con gli USA e attaccato la UE che, a suo dire, si è intestardita a legiferare su cose minime ma, soprattutto, ha criticato Trump che non si rende conto che l’Ucraina è l’inizio per poi attaccare l’Europa da parte russa. In conclusione, ha invitato l’Italia a comprare prodotti tecnologici USA piuttosto che quelli della Consip: davvero un’attenta analisi di geopolitica da parte del capo della procura di Napoli.  

Considerazione finale che si lega all’apertura a Leonardo Sciascia riguarda un libro “La mafia durante il fascismo”, e ne è autore Christopher Duggan, giovane ricercatore dell’Università di Oxford e allievo dello storico Denis Mack Smith che ha scritto una sua presentazione al testo con una novità distante anni luce dai nostri professionisti dell’antimafia. Ha evidenziato, con forza, che l’autore ha posto l’attenzione non tanto alla “mafia in sé” quanto a quel che “si pensa cosa sia la mafia e perché”. Questo è il punto focale dell’opera che non si lascia travolgere dalla tradizionale retorica che se ne fa in Italia. Poco tempo fa è stato pubblicato, con tanto di fanfara, dall’Agenzia internazionale Transparency International la classifica del famoso “Corruption Perceptions Index – CPI” in cui spicca e brilla l’Italia ma, se si legge con attenzione il rapporto, si resta basiti perché si scopre che un’agenzia mondiale si basa non su dati certi ed empirici ma sulla “percezione” di essi. La cosa divertente se non fosse tragica sarebbe che tutti la prendono come una fonte divina ed inappellabile e dove l’Italia, pur non volendo negare l’esistenza mafiosa, starebbe indietro a moltissime nazioni come ad esempio: Ruanda, Saint Vincent, Grenadine, Corea del Sud ed Qatar

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