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Taranto

Ilva, simbolo del declino. La crisi dell’acciaio e l’ombra sulla politica industriale italiana

L'Italia potrebbe essere l'unico Paese del G7 a non avere più il suo polo di produzione di acciaio primario. Tra crisi gestionale, ritardi politici e mancate strategie, l’Italia rischia di perdere il suo ultimo presidio di produzione a ciclo integrale dell’acciaio

L'ex Ilva

L'ex Ilva ora Acciaierie d'Italia

TARANTO - La vicenda dell’ex Ilva di Taranto è divenuta il simbolo più emblematico e dolente del declino industriale italiano e, per estensione, del rallentamento produttivo che affligge l'Europa intera. Dopo quasi un decennio di amministrazioni straordinarie, trattative complesse e successivi cambi di proprietà, la questione dell'acciaieria pugliese ha superato i confini regionali per imporsi come "caso sentinella" della politica industriale nazionale e della sua difficoltà a gestire una transizione così complessa in modo strategico e coerente.

L'acciaio primario, prodotto a ciclo integrale, non è una "commodity" qualunque, è la struttura fondamentale dell'intera manifattura nazionale. Dalla componentistica auto all'edilizia pesante, dalla meccanica di precisione alla cantieristica navale, ogni settore chiave italiano dipende in modo vitale da un approvvigionamento stabile e possibilmente gestito a livello nazionale di questo materiale strategico.

Quando un asset così cruciale come l’ex Ilva entra in una crisi tanto prolungata, l’instabilità si propaga inevitabilmente su tutta la filiera produttiva. L’attuale situazione, con impianti operanti a capacità ridotta e scarse prospettive immediate, costringe di fatto le aziende italiane a ricorrere in misura crescente all’importazione. Tale dinamica genera una dipendenza montante dall’estero, incidendo drasticamente sulla bilancia commerciale e compromettendo la competitività del Made in Italy, che si trova ad assorbire i costi e i rischi logistici di forniture più onerose. La vertenza ex Ilva, dunque, non ricade solo su Taranto o sulla siderurgia in senso stretto, bensì si configura come una responsabilità dell’intero Paese, capace di minare le fondamenta dell’economia reale.

Il concetto più allarmante sollevato dagli analisti è il rischio che l’Italia possa ritrovarsi come l’unica capitale del G7 senza più la capacità di produzione a ciclo integrale primario dell’acciaio. Questa non è una mera statistica economica; al contrario, appare come un segnale di declassamento geopolitico e di arretramento dell’economia industriale. Ciò è particolarmente grave in un contesto dove i grandi Paesi tendono a mantenere gelosamente il controllo sulle produzioni strategiche (come energia, chip, materie prime e acciaio) per assicurarsi l’autonomia produttiva, specialmente in contesti congiunturali di crescente instabilità mondiale e di deglobalizzazione selettiva.

Perdere il ciclo integrale dell’acciaio a Taranto significherebbe disperdere competenze uniche e insostituibili nel campo della metallurgia pesante; un prezioso know-how che richiederebbe decenni per essere anche solo parzialmente recuperato. Non di meno, tale perdita costituirebbe un segnale di ritardo dello sviluppo che potrebbe seriamente scoraggiare investimenti esteri in settori ad alta intensità di capitale. L’Europa è in generale in una fase di rallentamento produttivo e l’eventuale fallimento gestionale italiano sulla vertenza ex Ilva renderebbe il caso un esempio negativo tra le maggiori economie avanzate.

La crisi dell’ex Ilva si trascina ormai da troppi anni, durante i quali si sono succedute diverse gestioni commissariali, tentativi di risanamento ambientale e svariate ipotesi di partnernariato d'impresa. Questa cronicizzazione delle contingenze è il risultato diretto di una politica industriale alternante e contraddittoria. Le critiche diffusamente mosse alla situazione attuale evidenziano una profonda sfiducia nella capacità istituzionale di risolvere la vertenza in modo efficace e definitivo. Le palesi "indecisioni ufficiali" suggeriscono che quanto finora accaduto – dalle aste di dismissione al rilancio, fino al passaggio di proprietà – sia stato mal calibrato e privo di una visione pianificatoria chiara e duratura. Gli sforzi compiuti, in definitiva, non stanno portando a un risultato concreto, anzi, lasciano l’impianto in un limbo produttivo e i lavoratori in una condizione di sospensione sociale.

La politica si è trovata a gestire un dilemma insormontabile: come bilanciare il diritto alla salute e il diritto al lavoro, insieme all’interesse strategico nazionale. La mancanza di una posizione netta, supportata da investimenti massicci e indispensabili (sia per la riconversione green sia per gli ammortizzatori sociali), ha portato all’impasse che ha danneggiato in modo generalizzato tutti i soggetti coinvolti.

La vicenda ex Ilva è adesso l’incrocio di tutte le grandi sfide italiane: la transizione ecologica, la politica industriale, la giustizia sociale e la sovranità economica. Non è più possibile continuare con una gestione "al ribasso" e con meri interventi tampone. L’Italia deve urgentemente stabilire se l’acciaio a ciclo integrale primario sia un asset non negoziabile per la sicurezza e l’industria nazionale e agire di conseguenza, in ispecie attraverso un forte intervento pubblico mirato al risanamento e all’innovazione. Deve altresì sfruttare questa crisi per imporre la conversione totale agli standard ecologici, garantendo che la produzione non sia più in conflitto con la salute pubblica. E, se il mantenimento del ciclo primario dovesse rivelarsi lungo e complicato nel tempo, deve essere avviato un decommissioning gestito con massicci investimenti di riconversione economica per Taranto e gli altri siti interessati, trasformando il trauma occupazionale in un’opportunità di innovazione locale.

Finché la crisi dell’ex Ilva rimarrà una battaglia tattica da risolvere a colpi di decreti e non una scelta di politica di progresso e sviluppo a lungo termine, il Territorio e il Paese continueranno a scivolare nel ritardo economico e nella sfiducia istituzionale.

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