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L'intervento

Spopolamento e subalternità, il Sud alla prova della dignità

Un’analisi che lega denatalità, emigrazione economica e perdita di identità culturale. Il Mezzogiorno tra resistenza e rischio di suicidio collettivo

Neonato

Denatalità

BARI - Spopolamento, denatalità, emigrazione “economica”: tre aspetti dello stesso fenomeno – peraltro atavico – e della stessa malattia politico-economica. Questa malattia ha colpito ogni parte d’Italia ed è radicata nell’insipienza (o nella volontà) delle classi politiche chiamate a governare il Paese.

Come si reagisce a tale indesiderato fenomeno? Taluni chiedono che lo Stato faccia la sua parte – peraltro fino ad oggi riservata a certi italiani e non a tutti – che consiste in più servizi pubblici: una riedizione dei famigerati “Lep” (ormai dimenticati), evidente sintomo di una cultura di governo quanto meno sbagliata. In ogni caso si chiede qualcosa, una questua infinita e una umiliazione degna di un popolo di servi rassegnati a subire una condizione di subalternità verso una classe di amministratori di infimo ordine. Se una delle maggiori canzoni del mondo, la napoletana “Torna a Surriento”, esprimeva una supplica verso un politico dell’epoca per avere servizi minimi, come si può credere che il Mezzogiorno non sia stato educato – se non costretto – alla subalternità e all’umiliazione del “chiedere”? Tutti i politicanti locali sono espressione di questa rassegnazione e forse, se così non fosse, i partiti nazionali – tutti con sede e filosofia radicate al Nord – non li avrebbero scelti.

Inoltre, molta parte della nostra “intellighenzia” professa da tempo il mondialismo, suggerendo di insediarsi dove maggiormente conviene. Questa “dis-cultura” della convenienza spicciola riduce ogni scelta al fattore economico, producendo un travaso infinito di persone e capitali verso le aree già ricche, che così diventano ingestibili e invivibili, mentre intere regioni si svuotano. Una immensa imbecillità che rinuncia a trovare una soluzione e predica l’asservimento strutturale delle popolazioni – e dei loro figli migliori – ai ricchi, quale che sia la ragione di tale ricchezza.

Nel XIX secolo, quando la popolazione di un paese o di una città provava a ribellarsi, le truppe del governo piemontese intervenivano come forze di occupazione straniere, imponendo la propria volontà a suon di cannonate sulla popolazione civile. Venivano eliminati fisicamente coloro che avevano osato alzare la testa, soprattutto al Sud. Oggi, invece, i giovani e non solo sono persuasi a farsi guidare dall’interesse economico. Le università, soprattutto le più prestigiose, insegnano ambizione, avidità e competizione, spingendo a privilegiare il proprio tornaconto rispetto a indole e cultura.

In questo contesto, financo un nuovo figlio è vissuto come un costo o un ostacolo alla propria avidità. Questo profluvio di egoismo persuade a servire il potente per renderlo ancora più potente. Fortunatamente una parte significativa della popolazione resiste, ma ha bisogno di un percorso concreto per liberarsi dai condizionamenti mentali e materiali. La scelta economica obbligata per le classi indigenti lo è meno per le altre: che senso ha sacrificare ogni altro aspetto della vita per asservirsi ad altri? Rinunciare a identità e dignità, cioè al senso concreto della propria storia e cultura, per accumulare senza neanche avere una progenie cui lasciare il testimone, è un suicidio collettivo.

Il giovane di Bari o di San Marco in Lamis, laureato in una università blasonata e tornato a trasformare il mestiere del padre panettiere, è forse migliore e anche più redditizio del collega che vaga per il mondo alla ricerca di un padrone generoso. Chi vincerà? La vera domanda è: quando il mondialismo tecnocratico imploderà? E a quali costi umani e materiali?

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