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Il caso

Il grande bluff dello spezzatino siderurgico: Dri a Gioia Tauro e produzione a Taranto

L’ultimatum del ministro Urso appare come una pressione politica più che una scelta industriale. La minaccia di delocalizzare in Calabria ignora logiche produttive, rischia di compromettere l’occupazione e rallenta la transizione ambientale

Il ministro Urso: «La procedura è in corso»

Il ministro Urso

TARANTO - Un ricatto politico mascherato da strategia industriale. Così appare l’ultimatum lanciato dal ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso sul futuro del polo siderurgico di Taranto. Dietro l’apparente fermezza negoziale, la posizione del Governo sembra ignorare le basi stesse della competitività produttiva e della logica industriale. Una forzatura che, più che affrontare la sfida tecnologica e ambientale della transizione dell’acciaio, rischia di trasformarla in un braccio di ferro a scapito del Mezzogiorno, riproponendo una moderna “Questione Meridionale”.

L’ipotesi di delocalizzare impianti strategici a Gioia Tauro è stata presentata come alternativa immediata e realistica. In realtà, nulla di più lontano dalla verità. Taranto possiede un’infrastruttura industriale consolidata, frutto di decenni di attività, un patrimonio di know-how e una forza lavoro specializzata senza eguali nel settore. È qui che il progetto del DRI (Direct Reduced Iron), passaggio chiave per ridurre l’impatto ambientale della produzione, potrebbe integrarsi in modo naturale con un impianto già operativo, garantendo tempi e costi sostenibili.

Al contrario, Gioia Tauro è un porto container, non un polo siderurgico. Avviare da zero un complesso industriale di quelle dimensioni richiederebbe investimenti enormi e tempi di realizzazione incompatibili con qualsiasi urgenza produttiva. Significherebbe affrontare lunghe procedure autorizzative, progettazioni complesse e una costruzione da fondare su un territorio privo della filiera e delle competenze necessarie.

Separare il DRI dai forni, lasciando a Taranto solo lavorazioni di valle, significherebbe frammentare un processo produttivo che vive di integrazione. L’industria siderurgica si fonda sulla prossimità fisica tra le fasi, per ottimizzare logistica, tempi e costi. Costringere gli impianti a importare semilavorati da centinaia di chilometri di distanza produrrebbe un aumento insostenibile dei costi, una dispersione del know-how maturato e, con ogni probabilità, una riduzione significativa dei posti di lavoro.

Questa scelta non si limiterebbe a colpire la catena produttiva, ma rischierebbe di mettere in discussione anni di battaglie sociali e ambientali condotte dal territorio. Taranto ha sempre chiesto garanzie chiare: limiti sanitari e ambientali più severi, accelerazione della transizione tecnologica, revisione del tonnellaggio annuo sulla base di nuove valutazioni di impatto. Tutti impegni che il Governo non può più rinviare o affrontare solo a parole.

Il vero nodo non è soltanto dove collocare gli impianti, ma quale visione industriale guidare. Continuare a usare Taranto come pedina di un gioco negoziale significa alimentare incertezza e sfiducia, rischiando di far saltare qualsiasi possibilità di accordo stabile.

L’ultimatum del ministro Urso non offre soluzioni concrete, ma riapre continuamente la partita. Il territorio chiede certezze, non minacce. Perché senza un’intesa che tenga insieme sviluppo industriale, tutela ambientale e salvaguardia del lavoro, ogni trattativa sarà destinata a ricominciare da capo, rinviando ancora una volta la possibilità di dare un futuro vero alla siderurgia italiana.

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