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Roma

Eutanasia del socialismo riformista

Una tradizione gloriosa di riforme per l’uguaglianza. Il declino e la Terza Via che abbandona i vecchi capisaldi

Quarto Stato

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Questo articolo è stato pubblicato originariamente online su “Huffington Post Italia”

ROMA – Qualche giorno fa, a Roma, si è svolto un convegno eroico, sia perché quel dì la temperatura toccava i 40 gradi, sia per il titolo: “Le idee del socialismo ci salveranno”. L’ha organizzato l’infaticabile Gennaro Acquaviva (90 anni), presidente della Fondazione Socialismo, e (altro sintomo di eroismo) vi si trattava di libri recenti, tra cui uno, scritto da Claudio Signorile (Il socialismo della libertà, Marsilio, 14 euro) e un altro, di Claudio Martelli (Il merito, il bisogno e il grande tumulto, La Nave di Teseo, 20 euro), uscito lo scorso anno, di cui ho reso conto anche qui mesi fa. Acquaviva, Signorile e Martelli, tra molti altri, furono gli esponenti dell’ultima, ma forse anche dell’unica, esperienza di socialismo riformista che l’Italia abbia mai registrato, quella del PSI di Bettino Craxi. E quando essi intendono socialismo, anche oggi, vogliono dire quello riformista o socialdemocratico.

Eppure per il riformismo, cioè per la socialdemocrazia, questo è il periodo più cupo dai tempi del crollo dei fascismi. I partiti socialisti, socialdemocratici, laburisti, sono in preda a una lenta eutanasia, se non proprio a un tracollo: in alcuni paesi, come Israele, Ungheria e Grecia, sono spariti da tempo, in Germania sono stati superati dai neo-nazisti, in Francia sono solo una piccola ruota della gauche, mentre nell’ex Europa dell’est hanno quasi ovunque percentuali da prefisso telefonico. Ormai governano solo in pochi paesi della UE – Spagna, Danimarca, Malta –, in un ruolo subalterno in Germania e, fuori, nel Regno Unito.

Ma a Madrid la stagione di Pedro Sánchez, che pure ha cercato di andare oltre il riformismo, pare finita, mentre a Londra Keir Starmer è già in crisi. Peggio ancora, i socialisti non cadono di fronte a una destra democratica e liberale ma a una nazionalista e populista, con tratti marcatamente autoritari, quando non fascistoidi e nazistoidi.

Per capire la fine (o, almeno, quella che sembra tale) di una storia, bisogna sempre partire dall’inizio e seguirne gli sviluppi: per questo sarà utile leggere uno degli altri libri presentati al convegno citato, quello dello storico francese Gilles Vergnon, Cambiare la vita? Storia del socialismo europeo dal 1875 a oggi (Einaudi, 27 euro). L’opera è ambiziosa e, pur nelle dimensioni contenute, riesce a rendere conto di un movimento che ha definito la modernità e, in concreto, la vita di milioni di persone, soprattutto in Europa.

Si capisce, anche leggendo il libro dello studioso francese, che in realtà il socialismo non è destinato a morire, poiché è il movimento incaricatosi, con maggior forza e rigore, di lanciare una delle sfide più temerarie della storia dell’umanità: quella alla diseguaglianza e, per converso, quella per l’eguaglianza.

Se infatti per millenni la diseguaglianza tra gli esseri umani fu considerata un dato naturale e eterno, dalla Rivoluzione francese si cominciò a capire che essa non era affatto un destino immodificabile, ma possedeva origini e cause sociali. Nonostante il liberalismo, il repubblicanesimo democratico, il cristianesimo sociale e altre culture politiche si fossero poste l’obiettivo di ridurre, se non di abolire, la diseguaglianza, il movimento che, fin dall’inizio dell’Ottocento, più accanitamente cercò le soluzioni per arrivarvi, fu quello socialista.

La storia del socialismo è dunque anche storia delle feroci divisioni interne per realizzare, su terra, l’égalité. Dalla fine della Seconda guerra mondiale il modello vincente, che riuscì per un certo periodo a tenere unite libertà individuali e politiche egualitarie (anche se non collettiviste), fu la socialdemocrazia, cioè il riformismo.

A un certo punto però, come si capisce leggendo anche Vergnon, questo riformismo ha cominciato a tradire se stesso: con la cosiddetta Terza Via di Tony Blair, di Lionel Jospin, di Gerhard Schröder (ma anche, allora, di Massimo D’Alema e Walter Veltroni, che su queste basi culturali crearono qualche anno dopo il PD), il socialismo riformista parve annunciare di non essere più interessato a combattere le diseguaglianze, perché riteneva ciò impossibile, e che il suo compito fosse solo quello di promuovere la libertà.

Il tema fu anzi esplicitamente teorizzato dal grande sociologo Anthony Giddens, eletto ideologo del New Labour.

Per qualche anno il meccanismo ha funzionato, almeno in termini elettorali. Ma quando gli elettori della socialdemocrazia – operai, lavoratori manuali, impiegati statali e in genere ceto medio a basso reddito – hanno cominciato a rendersi conto che, con i governi della sinistra, le loro condizioni di vita erano peggiorate, hanno iniziato prima ad astenersi, poi ad avvicinarsi a forme di populismo nazionalista e reazionario.

Più i riformisti venivano abbandonati, più si spostavano verso destra, rincorrendo le ricette dei conservatori, anche su temi come l’immigrazione. Ma gli elettori delusi dalla sinistra non vogliono xenofobia e razzismo al posto dello Stato sociale. E non a caso Starmer sta spianando la strada a Nigel Farage.

Anche al di là dell’attuale caso inglese, sono stati spesso i governi riformisti a spianare la via ai populisti di destra: vedi, in Italia, quello di Matteo Renzi, che eliminando l’articolo 18, ha colpito al cuore la propria storica constituency.

Il riformismo è morto. Mostra invece qualche segnale il socialismo “populista”, come lo definiva Ernesto Laclau: resiste in America Latina, meno in Europa. Gli esempi di Podemos e Tsipras sono indicativi, come anche la France Insoumise di Mélenchon. Ma il socialismo populista fatica a vincere, come ha dimostrato il caso di Jeremy Corbyn.

Resta una domanda: per cambiare davvero un paese, è necessario arrivare al governo? Per il riformista classico, il potere è tutto. Ma anche quando lo ottiene, scopre che la stanza dei bottoni è vuota.

Forse è tempo di provare altre strade, magari cambiando anche il nome al PD: “Democratico” è ormai una parola vuota. Forse bisogna tornare alla “S”. La “S” di socialista.

Marco Gervasoni

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