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La storia
20 Luglio 2025 - 07:13
Filippo Ninni
TARANTO - Altro ritratto a firma di Franco Presicci, giornalista tarantino che vive da decenni a Milano dove è stata firma prestigiosa del quotidiano il Giorno. Questa volta racconta la storia di un tarantino doc che ha vissuto tutta la sua vita professionale al servizio dello Stato a Milano: Filippo Ninni.
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È di Taranto. Anzi di Talsano. Se fai la distinzione, risponde: “Talsano è parte di Taranto. Il suo prolungamento”. È legato alla culla come “le còzze gnòr’a zòche”, le ostriche allo scoglio, l’edera al tronco dell’albero o alla parete. Quando è andato in pensione è tornato al nido e non parla volentieri del lavoro svolto a Milano come poliziotto.
L’ho conosciuto quando dirigeva il commissariato Cenisio, dove i malacarne gli avevano affibbiato l’etichetta di ispettore Callaghano. Eppure era un poliziotto che non usava le maniere forti. E se vogliamo includerlo tra i personaggi della letteratura poliziesca, per il carattere era un po’ Maigret e un po’ Poirot.
È un “gentleman”, ordinato, serio, concreto, preparato, intelligente, statura media, non molto magro, un sorriso comunicativo, i baffetti vibranti. I suoi collaboratori dicevano di non averlo mai visto battere i pugni sul tavolo, che era comprensivo e rispettava il lavoro altrui. Consigliava con garbo, non si vantava mai dei successi ottenuti, neppure quando a tempo di record risolse un delitto clamoroso, che dimorò sulle pagine dei giornali per giorni e giorni.
Filippo Ninni e Francesco Presicci
I suoi interventi contro la criminalità di grande respiro non si contano. Si appostò con i suoi uomini in un appartamento per ore, aspettando che nel punto di una via segnalato da un “trombettiere” cominciassero a trafficare dei mercanti di morte. E li rastrellò subito dopo il loro arrivo. Un elemento di grosso calibro della malandra a San Vittore finse un malore, lo portarono con l’ambulanza in ospedale, dove lo aspettavano i complici, che armi in pugno ne permisero l’evasione. Filippo Ninni abbracciò anche quell’impegno e senza perdere tempo si mise alla ricerca dell’evaso, stendendo trappole un po’ dappertutto nella zona.
Con classe, con massima accortezza e discrezione. Le volpi della carta stampata lo tempestavano di domande e lui regalando sorrisi e battute dribblava. “Come faccio a sapere dov’è imbucato, quello è un fantasma, un ectoplasma, è una primula rossa, forse lo scoverò, ma se vi rivelo le mie mosse, gli faccio un favore”. Alla fine lo acciuffò e allora largheggiò nelle risposte, in un’affollata conferenza stampa in via Fatebenefratelli. Promosso capo della Squadra Mobile, il campo d’azione del vicequestore Filippo Ninni si ampliò. Già da dirigente del commissariato Cenisio si era adoperato per la soluzione del delitto di una studentessa della Cattolica, uccisa una sera mentre tornava a casa in una via della Bovisa nei pressi della stazione ferroviaria. In via Fatebenefratelli faceva giri più ampi. I giornalisti erano spesso convocati per essere informati del sequestro di un grosso quantitativo di droga, armi, denaro, walkie-talkie a un clan agguerrito.
Viveva come i suoi collaboratori tra sparatorie, regolamenti di conti, guerre tra bande per il dominio del territorio, mentre i titolari del gioco d’azzardo incassavano miliardi. Le bische clandestine erano decine, al chiuso e all’aperto, dove oltre a lanciare i dadi a volte sparavano. Alcune “belande”, bische in gergo, erano spacciate per circoli culturali, dove campeggiava soprattutto lo “chemin de ferre”. In una di queste, sette banditi rientrarono armati per riprendersi i soldi divorati dal tavolo verde, e fuggirono con 120 milioni. Qualche giorno dopo esplose una strage paragonabile a quella di Moncucco, nel ristorante “La strega”, con otto persone assassinate. La malavita non perdonava: morti nei locali pubblici, morti nelle strade. Una sparatoria una sera dell’81 contro la bisca di corso Sempione, appartenente a un sovrano elegante, spiritoso, che gestiva la sua congrega con metodi manageriali.
Gli uomini della squadra mobile correvano come levrieri. Ricordo le lacrime di Antonio Pagnozzi, allora capo della Mobile, poi questore e prefetto, la mattina dell’8 gennaio dell’80, quando le Brigate Rosse, sotto il ponte di via Schievano, a poca distanza dal Naviglio Grande, uccisero i tre poliziotti del commissariato Ticinese Tatulli, Cestari e Santoro.
Ricordo l’assedio a una ditta di mangimi in via Santa Sofia: un uomo entrò, uccise il marito della propria amante, tenne in ostaggio una decina di impiegati per un giorno e una notte, prima di arrendersi fece fuoco contro un’altra persona e puntò l’arma sulla propria tempia. Quella notte faceva un freddo cane, verso le 3 del mattino arrivò Enzo Tortora, intenzionato a parlamentare con il sequestratore, ma il giudice Dell’Osso glielo impedì perché la situazione era pericolosa. Aveva bloccato anche il maresciallo Ennio Gregolin, un mastino, che voleva catapultarsi attraverso una finestra, per placare l’angoscia della gente. Io ero rifugiato nella cabina di un mezzo dei vigili del fuoco per difendermi dal gelo. Ma questa è un’altra storia: la mala non c’entra.
Filippo Ninni e l'ispettore capo Alberto Sala
Neppure noi cronisti ci risparmiavamo. Dormivamo con un occhio solo e alla prima chiamata giù dal letto, la telefonata al fotografo e con lui via verso il luogo indicato. Filippo Ninni una volta arrivò sul luogo di un avvenimento in elicottero: dovevano demolire le case degradate tra cui si svolgeva il mercato della “roba”. Fu una delle operazioni di Ninni in via Cenisio. Alla Mobile, poi alla Criminalpol, posto recentemente occupato da Francesco Colucci, nominato questore di Bergamo, ottenne risultati rilevanti, inanellando colpi a catena. Tra l’altro, con una delicatissima indagine immobilizzò 12 ‘ndranghetisti incensurati, sequestrando 480 chili di droga, che sarebbero serviti in parte a foraggiare i complici in carcere.
Non si fermava mai. Andavo a trovarlo in piazza San Sepolcro, luogo storico, e se era libero dal lavoro parlavamo di Taranto. Qualche volta usavo il dialetto. Solo con lui potevo farlo. Ero circondato da milanesi, veronesi, bresciani, bergamaschi, felsinei della dotta e colta Bologna e la lingua italiana era d’obbligo. Io pensavo in dialetto. Una sola volta dissi “Ce n’ama scè sciàmene…” e subito il mio grande collega Nino Gorio, che vinse il premio “Cronista dell’anno” di Sinigaglia, per uno “scoop” messo a segno per un importantissimo quadro italiano trasmigrato in Francia, assimilò la frase e la recitò divertito. Il dialetto faceva e fa parte di me.
Dopo la pensione Ninni è rientrato a Taranto e di tanto in tanto ci sentiamo. Si gode la bellezza, lo splendore di Taranto, può fare un salto “abbasci’a marìne”, a sentire respirare Màre Pìcce; se ha voglia può spingersi fino al Galeso, per vederlo scorrere tra gli alberi e io non posso che essere contento per lui.
Taranto è una malia, il suo fascino segue chi l’ama ovunque sia. Taranto domina i miei pensieri. Filippo Ninni ha smesso di sognarla, la vive, è nel ventre di Taranto, nella sua anima. Quando lo chiamo lo sento felice di trascorrere i suoi giorni nella città dei poeti; di inebriarsi alla vista dei tramonti che si accendono sul Mar Grande; di poter ammirare il ponte di ferro: di alimentare i suoi ricordi dei tempi antichi.
Filippo Ninni è stato un ottimo poliziotto e mi meraviglio che non voglia concedere più interviste: ha chiuso un libro ricco di fatti, curiosità, particolari, caratteri, comportamenti, reazioni dei “boss” e dei gregari mandati al “gabbio”, nelle celle di San Vittore già tutte abbondantemente occupate e non vuole più sfogliarlo né condividerlo. “Capitolo chiuso, che appartiene al passato. Fai tu, le cose accadute le sai. Io non desidero più parlarne”. Peccato, una memoria che si chiude, chiuso un serbatoio di notizie. Filippo Ninni potrebbe snocciolare un racconto lungo quanto un’autostrada.
Non solo lui, ma anch’io a volte sono invaso dai ricordi. E li respingo, perché i ricordi a volte fanno male: ti riportano ai tempi in cui vedevi cose belle e brutte, le raccontavi e raccontavi anche le persone, persino alcuni di quelli della mala, “boss” che avevano vari delitti sulla coscienza; boss che avevi intervistato. Uno di questi fu ucciso barbaramente in carcere per ordine di qualcuno interessato a dominare sul territorio della città. Altri restano, ma sono impalliditi e almeno per me non è giusto portarli alla ribalta con nomi, cognomi e “curriculum”. La gente cambia, migliora e va lasciata in pace. Sperando che si reintegri nella società civile. Anche per questo sono state in carcere: la pena deve rieducare, far rinascere, reintegrare. Per questo non amo quelli che bollano a vita chi ha sbagliato. Non tutti sono pezzi da 90, che non rinunciano al comando.
Franco Presicci
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Testata: Buonasera
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