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Taranto

Ex Ilva, il tempo che scorre e l’Italia che dimentica

La crisi dell’acciaieria è diventata simbolo di un Paese che non riesce a conciliare sviluppo, lavoro e salute. Il tempo stringe, ma politica e cittadinanza sembrano parlare lingue diverse

Ex Ilva al bivio

Ex Ilva, uno dei tanti vertici a Roma - archivio

TARANTO - La questione dell'ex Ilva di Taranto continua a dominare la cronaca e a rappresentare una delle ferite più profonde e complesse nel tessuto industriale e sociale italiano. È una storia che si trascina da anni, un intreccio soffocante di fattori in cui il tempo che scorre e occorre, l’ambiente compromesso e gli esuberi imminenti si confrontano e si scontrano, generando una crisi che va ben oltre i cancelli della fabbrica.

Il tempo, in questa vicenda, si rivela un’arma a doppio taglio. Da un lato, è il tutto che sfugge, quello dei continui rinvii e delle mancate decisioni che hanno lasciato Taranto in un limbo di incertezza. La prospettiva di una chiusura degli altoforni si avvicina, rendendo ogni giorno più prezioso per definire il futuro. Dall’altro, è il tempo delle scadenze ambiziose per la decarbonizzazione, un processo lungo e costoso che richiede una visione strategica e investimenti massicci, finora più promessi che realizzati. Intanto, gli impianti si logorano, la manutenzione langue e i processi giudiziari avanzano con ritmi spesso incalzanti per chi vive l’emergenza quotidiana.

La città, dichiarata “area ad elevato rischio di crisi ambientale” decenni fa, continua a pagare un prezzo altissimo in termini di inquinamento, malattie e perdita di qualità della vita. L’Autorizzazione Integrata Ambientale (AIA) rimane il nodo principale. Senza garanzie stringenti per la salute e l’ambiente, il futuro dello stabilimento è compromesso. La dicotomia tra produzione siderurgica e tutela ecologica sembra irriducibile; la città attende ancora bonifiche complete e un piano serio di riconversione che metta fine al disastro ecologico che ha colpito terra, aria e mare.

Dietro le statistiche e le discussioni politiche, si celano migliaia di lavoratori e le loro famiglie, la cui vita è segnata dalla precarietà di ogni momento. La cassa integrazione, sebbene necessaria, è diventata una condizione quasi permanente, erodendo i salari e la dignità. Il rischio di esuberi massicci, in un territorio già fragile, è una minaccia costante. I sindacati combattono strenuamente per la piena occupazione, chiedendo piani industriali concreti che vadano oltre la semplice gestione dell’emergenza. Il lavoro a Taranto non è solo un’occupazione, ma un fondamento della comunità; e la sua messa in discussione genera ansia e proteste continue.

Emerge così uno scollamento profondo tra le priorità dell’opinione pubblica e quelle della classe politica. Una vera e propria crisi di rappresentanza. Per i cittadini di Taranto, la salute e l’ambiente sono al primo posto, una priorità incondizionata dettata da anni di sofferenza e malattie. Essi chiedono giustizia e un futuro libero dall’inquinamento, anche se questo comporta scelte drastiche sul modello produttivo. La politica, d’altro canto, sembra concentrarsi maggiormente sulla gestione degli esuberi, spinta dalla necessità di mantenere la pace sociale e il consenso. L’urgenza di affrontare il tempo che stringe con soluzioni immediate, spesso emergenziali, è altrettanto rilevante.

Per dare un’idea della divergenza, potremmo empiricamente stimare che per i cittadini la salute e l’ambiente rappresentino circa il 45% delle preoccupazioni, mentre per la politica questa percentuale si attesta intorno al 25%. Viceversa, la gestione degli esuberi occupa circa il 40% delle priorità politiche, affiancata dall’urgenza temporale che incide per un ulteriore 35%.

Questa divergenza genera una profonda crisi di rappresentanza. Le esigenze vitali della comunità sembrano non trovare piena traduzione nelle strategie e nelle azioni di chi dovrebbe tutelarle. Le promesse non mantenute e l’approccio “tampone” hanno eroso la fiducia nelle istituzioni, lasciando Taranto in una condizione di attesa frustrante.

La questione ex Ilva non è solo la storia di una fabbrica, ma il simbolo di un’Italia che fatica a conciliare sviluppo, lavoro e tutela ambientale. Confrontando l’attuale situazione con quanto accadde a Taranto negli anni ’70, emergono analogie significative ma anche differenze che meritano di essere sottolineate.

Allora, durante la cosiddetta “Vertenza Taranto”, la questione ambientale era solo un “effetto collaterale”, e le priorità erano il lavoro e lo sviluppo. Oggi, invece, l’inquinamento e la salute sono al centro del dibattito, riconosciuti come diritti primari e non negoziabili. In quel periodo, il settore siderurgico era ancora visto come un asset in espansione; ora, il mercato globale dell’acciaio è in crisi e l’idea stessa di “grande industria” è sotto radicale revisione. La fabbrica è ormai percepita come simbolo di sofferenza e modello di sviluppo sbagliato.

Ma forse la differenza più amara e rilevante è proprio la crisi della rappresentanza e la disgregazione sociale. Negli anni ’70, i lavoratori e la città si riconoscevano ancora in una classe politica locale e nelle organizzazioni sindacali che, con l’appoggio dei partiti, si unirono in un fronte comune affrontando l’Italsider e il Governo nazionale. C’era un senso di unità, una voce collettiva che si alzava per difendere gli interessi di Taranto. Oggi, invece, lavoratori e cittadinanza non si riconoscono più né nella classe politica locale, né in quella regionale, né in quella nazionale. La mancanza di rappresentanza e di fiducia ha portato a una situazione in cui la “Nuova Vertenza Taranto” è quasi una “lotta di tutti contro tutti”. Il fronte comune si è frammentato in tante istanze individuali, di gruppo o di categoria, rendendo più difficile la costruzione di una strategia condivisa e unitaria.

Se negli anni ’70 si cercava il benessere economico accettando il rischio (allora meno compreso) per l’ambiente, oggi la posta in gioco è la salute stessa della comunità; un’emergenza non più ignorabile, ma combattuta con una disarmante mancanza di coesione.

Si avverte la necessità di una pianificazione che vada oltre il semplice rattoppo. E l’idea che quel qualcuno possiamo essere solo noi è forse la lezione più amara ma anche più potente che la storia di Taranto, dagli anni ’70 a oggi, ci consegna. Proprio perché adesso più che mai, l’unità e la capacità di visione dal basso sembrano l’unica strada percorribile in un contesto di così profonda disillusione e frammentazione.

Prof. Raffaele Bagnardi
Sociologo del Lavoro

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