Cerca

Cerca

La storia

Nicola Giudetti, il cuore antico di Taranto

Memoria vivente della città vecchia, poeta del vernacolo e custode di una civiltà dimenticata. Il suo racconto è un viaggio tra dialetto, storia e umanità, che incanta chiunque voglia ascoltare

Nicola Giudetti

Nicola Giudetti

TARANTO - Ancora un ritratto scritto con la penna dei ricordi a firma di Franco Presicci, giornalista tarantino che vive da decenni a Milano dove è stata firma prestigiosa del quotidiano il Giorno.  

***

Lo incontrano per strada e gli chiedono l’autografo o il soprannome di una persona in vista di una volta. C’è chi lo abbraccia, dicendo “Tu sei Taranto”. Lui, Nicola Giudetti, un mito, si commuove; e a volte avverte il calore di una lacrima sul viso. È la memoria storica della città. Ricorda nomi, cognomi, nomignoli, mestieri, pregi e difetti di quasi tutti gli abitanti “d’a vieremìenze”, di vicoli e “strìttelle”, “de pustèrle”, “de pisciauèle” e “de cozzarùle”.

Ricorda tutte le sue poesie, che se lo chiedi recita senza soste, con i toni giusti, alti, bassi, senza gesticolare, trasmettendo emozioni. Quando parla bisogna solo ascoltarlo, senza interruzioni: è una cascata d’acqua gorgheggiante; un archivio fitto di parole dialettali antiche. Descrive oggetti che non si usano più (segnarono gli anni dei nostri nonni): “’u càndre”, per esempio (cilindri in terracotta che raccoglievano il superfluo che il corpo rifiuta); gli sgabuzzini-gabinetto collocati sui balconi, non proprio ai tempi di Matusalemme.

Giudetti ha 89 anni ed è un uomo ricco di esperienze. Per lui la città vecchia non ha segreti né misteri. È un libro aperto, da sfogliare e da assorbire. Ti racconta come si chiamava un tempo piazza Fontana; via Duomo, che era piena di luci diffuse dai tanti negozi. Via Cava? Non fai in tempo ad evocarla e lui ti fa l’elenco delle persone che l’abitavano, la storia degli stabili e degli inquilini.

Se un giornalista lo intervista chiudendo gli occhi, si immedesima in quello che dice, si immagina le cose, le persone. La parola di Nicola è icastica. Cita “’a ciucculatère” e chi gli sta di fronte pensa alla locomotiva a vapore che partiva sbuffando dal binario morto di Taranto per raggiungere Martina; e invece si riferisce alla macchinetta che brontolando fa il caffè: risolve il dubbio in pochi secondi, appena lo avverte.

Mi dice “T’hàgghia rialà ‘u spuzzecafàve” e spiega il significato della parola, l’uso che si faceva dello strumento: la cassetta con due scomparti e con al centro una specie di scalpello che tagliava in due il legume secco, da mettere in pentola per farne purea da mangiare con le cime di rapa. Un tempo sempre presente sulle tavole dei contadini, che non avevano altro, e oggi una ricercatezza.

Giudetti è venuto a trovarmi a Martina Franca, con Antonio De Florio e Nicola Cardellicchio: tre cavalieri del vernacolo e serbatoi della Taranto che fu; ed è stata una mattinata di cultura tarantina.

Cardellicchio ricorda i nomi dei teatri che non ci sono più: l’Alambra, il Paisiello, l’Odeon, e tante altre cose. De Florio è un maratoneta: gira per la città con la sua macchina fotografica e ne coglie gli aspetti più incantevoli da postare su Facebook per le migliaia di aderenti di “Foto Taranto com’era”. Chi non conosce Taranto, i suoi angoli più caratteristici, più segreti, più belli, eccolo servito.

La bellezza di Taranto s’impone allo sguardo. Taranto è una magia, una scenografia stupenda, una visione che abbaglia, seduce, rapisce. E ha sempre qualche un punto che bisogna andare a cercare, sgambando. Perché Taranto non è vanitosa, esibizionista e ha la sua parte di riservatezza.

Da Milano la sogno ad occhi aperti, Taranto; vi atterro con il pensiero; mi rivedo nei luoghi che ho amato, oggi soffocati dal cemento armato. Ho amato viale Venezia: oggi viale Magna Grecia ha sepolto quel gran mare di verde che faceva bene allo spirito e non solo. È qui che molti anni fa si riversarono tanti abitanti della città, che vanta il Mar Piccolo, piazza Fontana, la Dogana, che si chiamava “’a Duàne d’u pèsce”, “sanemìnghe” (chiesa di San Domenico), “’u pònde de pètre”, balcone sul panorama con le imbarcazioni di lusso, case galleggianti che fanno desiderare l’avventura.

Spero di poter fare una passeggiata con Cardellicchio, De Florio e Giudetti nel sacrario del dialetto, in cui attinsero poeti e scrittori e anche gente comune come me che non ha mai rinunciato a cogliere dalle labbra dei tarantini dell’isola “sarchiapone”, “stangachiàzze”, “pertuse”, “Cicce Cappucce”, che ormai si trovano soltanto nei dizionari. Vero, Nicola?

Molti giovani non conoscono il vernacolo, non conoscono parole come “scìgghie” (elemento della livoria, gioco in voga allora in entrambe le città), “schife” (scafo), “’mbòte” (tasca). Ed è un peccato, perché il dialetto ci viene da dentro e non è giusto lasciarlo lì. Volerlo ignorare è come strappare le radici all’ulivo, albero secolare e sacro.

Mi commuovo quando ascolto una poesia di Nicola Giudetti o di Saverio Nasole o di Diego Marturano (“’U relògge d’a chiàzze”) o quando vedo la mia culla impressa nei quadri del “re della città vecchia”, Nicola Giudetti, appunto. Non c’è un briciolo di retorica nelle mie dichiarazioni: vi assicuro che sono spontaneo e schietto.

Amare il dialetto è amare Taranto? Sono orgoglioso di esservi nato. Perciò cerco Nicola, che tanta gente considera il biglietto da visita della città, il fiore all’occhiello. Se tanti vanno nel suo “museo”, in via Duomo, e gli chiedono di recitare i suoi versi e di sciorinare i suoi ricordi, di rinverdire luoghi, personaggi, usi, custoditi nel suo archivio mentale, vuol dire che bisognerebbe istituzionalizzare questo pregio, portarlo nelle scuole per smuovere assopimenti, stimolare l’attaccamento a questo paradiso, spiegare la nostra storia e anche la lettura di testi teatrali e di altri scritti come “Il matrimonio di Rosa Palanca” e opere più moderne, come quelle di Bino Gargano e i soffi poetici di tanti nostri poeti e, ripeto, quelli di Nicola Giudetti, che ha avuto riconoscimenti e ha svolto con zelo e competenza incarichi importanti.

Tante volte mi propongo di fare un salto in via Duomo, nella “chiesa” di Nicola, ma ho bisogno di qualcuno che mi offra il passaggio.

Nicola per me è un docente, anche se nel suo “curriculum” risulta che ha la terza elementare. Andare da lui vuol dire arricchirsi, anche osservando le sue processioni in terracotta, i suoi attrezzi antichi (trapani, bilance, caffettiere, forme di calzolai con il deschetto, camastre…). In quel locale si torna a oltre 60 anni fa, in un altro mondo, sconosciuto a tanti.

Vorrei suggerire a Nicola di riprendere un’iniziativa già da lui realizzata una quindicina di anni or sono: la rivisitazione dei vecchi mestieri: “’u ‘mbagghiasègge”, “’u cadaràre”, “’u conzagràste”, “’u ferràre”... Già una volta Nicola Giudetti ed altri fecero rivivere questo ambiente in un supermercato nei pressi di Taranto, dove lui, indossando un cappello di paglia, manovrava il trapano a mano con cui si ricucivano le “ferite” dei “capasoni”, delle “capase”... “cu nu lìmme” su un tavolo.

Non mancava la donna affaccendata “c’u strecatùre”, la tavola di legno a scalini più lunga che larga con un’estremità immersa in un catino pieno d’acqua per lavare i panni. Rivolgo l’invito anche ad Antonio De Florio, che ama queste ricostruzioni didattiche e scenografiche. C’è il luogo in cui poter realizzare l’idea: l’interno di una chiesa sconsacrata, di cui proprio Giudetti ha le chiavi.

I tanti turisti che sciamano a Taranto sarebbero sicuramente interessati a vedere questi brani di teatro. Sarebbe forse anche un modo per spingere i giovani a interessarsi della vecchia civiltà nostrana; e a leggere i volumi di Giacinto Peluso e le opere di tanti poeti che hanno cantato Taranto. Un nome? Michele Pierri, che fu primario chirurgo del vecchio ospedale, poeta insigne di respiro nazionale, uomo gentile e generoso.

Negli anni Sessanta ebbi occasione di parlare con lui fuori del pronto soccorso e fu per me un momento edificante.

Taranto merita, non soltanto per la sua bellezza che splende anche nei tramonti. Amare Taranto come la donna del cuore. Amare Taranto per tutta la vita, anche per i danni che ha subito, per le offese che ha ricevuto da persone con i peli sullo stomaco, incapaci di vedere al di là del proprio naso e del proprio interesse.

Mi verrebbe voglia di urlare: “Ho Taranto nel cuore”. Voler bene a Taranto è voler bene a se stessi, mi ha detto Nicola Giudetti, una leggenda.

Franco Presicci

Commenti scrivi/Scopri i commenti

Condividi le tue opinioni su Buonasera24

Caratteri rimanenti: 400

Resta aggiornato, iscriviti alla nostra newsletter

Termini e condizioni

Termini e condizioni

×
Privacy Policy

Privacy Policy

×
Logo Federazione Italiana Liberi Editori