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L'acciaieria

Il Siderurgico venduto come "ferro vecchio"

Così nacque la fabbrica a Taranto

L'ex Ilva

L'ex Ilva

Nella dodicesima puntata ho riprodotto la mia lettera del 12/09/1994 al ministro Giuliano Ferrara per indurlo ad occuparsi della privatizzazione dell’Ilva di Taranto. Alla lettera, rimasta senza risposta, erano allegate queste

RIFLESSIONI SULLA PRIVATIZZAZIONE DI ILVA

Premessa.

La privatizzazione dell’ILVA Laminati Piani è in realtà la privatizzazione di ILVA Taranto.

E’ una sola enorme fabbrica, grande tre volte la città di Taranto, in grado di produrre 10 milioni di tonnellate/anno di acciaio, che è circa il 50% del fabbisogno nazionale italiano.

Su questa fabbrica, solo per investimenti, finora sono stati spesi oltre 50.000 miliardi a lire attuali. Di contro, secondo stime fatte nella trasmissione televisiva “A grandi cifre”, per tutte le privatizzazioni finora realizzate, lo Stato ha introitato 10.000 miliardi. Eppure alla privatizzazione dell’ILVA viene dedicata quasi nessuna attenzione, specie se la paragoniamo al can-can fatto per la privatizzazione delle banche.

Quale può essere il prezzo di vendita di ILVA? Con quali criteri viene fissato? Chi garantisce che è equo? Se non ci sono offerte adeguate, si deve vendere comunque, anche a costo di fare regali? E in tal caso, a chi vendere/regalare? Con quali prospettive per il futuro assetto impiantistico e produttivo della fabbrica? La privatizzazione in realtà è l’anticamera della chiusura?

Il nocciolo della questione è la visione realistica del futuro, il coraggio di guardare in faccia la realtà e di fare progetti realizzabili e non forzature demagogiche, come quella di Bagnoli, tanto per citare uno degli ultimi grossolani errori politico/industriale/sindacali della siderurgia pubblica. Quello che segue è il contributo/stimolo per un progetto industriale realistico, 1egato alla privatizzazione, ma con lo sguardo ben attento al futuro. Espongo quanto ho capito in 23 anni di dimestichezza con 1a siderurgia pubblica e privata a Taranto, a Terni e a Milano, con riferimento a fatti e conoscenze già di dominio pubblico, ora inquadrati in una visione complessiva, comprensibile anche ai non addetti ai lavori.

Nelle mie conclusioni penso a una soluzione che vede ILVA Taranto abbastanza ridimensionata, ma con un futuro sufficientemente sicuro perché tiene realisticamente conto dei suoi veri problemi strutturali, non contingenti: la quantità di produzione “assegnabile”, l’indebitamento, la dimensione “mostruosa” e ingestibile dello stabilimento.

Per una soluzione di questo tipo occorre un progetto industriale elaborato da un Grande Progettista, fantasioso, inossidabile, coraggioso e di assoluta credibilità internazionale.

Sarebbe una soluzione sicuramente dolorosa, impopolare e diffici1e da progettare e da far accettare, ma vale la pena di ragionarci su, senza barricate o scontri ideologici.

Valore di ILVA Taranto e fabbisogni finanziari.

In premessa ho già detto che ILVA Taranto dal 1960 ad oggi, di soli investimenti, a lire attuali, è costata circa 50.000 miliardi.

Il valore attuale di questo stabilimento non è certo questo, ma non può essere neanche quello delle pre-offerte di Lucchini o di Miller/Tarnofin e Soci e neppure quello dei libri contabili.

Tanto per fornire qualche elemento di riflessione, ricordo che nell’era Gambardella (già A.D. Ilva), all’epoca della liquidazione della FINSIDER e di tutti i “fuochi d’artificio ad essa connessi”, lo stabilimento di Taranto era stato valutato 1800 miliardi.

E’ una cifra che lascia perplessi se si pensa che lo stesso Gambardella aveva varato un piano triennale di investimenti di 1300 miliardi, senza aumento di capacità produttive, ma solo di mantenimenti e di ammodernamenti, incluso il rifacimento dell’altoforno numero 5.

Non va trascurato che, per mantenere in vita lo stabilimento di Taranto, indipendentemente da quanto possono essere pagati gli impianti e gli altri beni, e indipendentemente dai costi di gestione vera e propria, serve ogni anno tanto denaro per i rifacimenti e gli ammodernamenti impiantistici. Si tratta sempre di migliaia di miliardi.

Assetto produttivo - Quantità di produzione per Ilva Taranto.

ILVA Taranto, per essere economicamente valida, dovrebbe produrre al massimo delle sue capacità e in maniera continuativa: il ciclo siderurgico integrale non è una Ferrari che consente lo “stop and go” in 10 secondi e quindi ha bisogno di grossi volani e di stabilità di marcia.

Per di più, la produzione di nastri di acciaio (coils) di Taranto proviene da 2 soli enormi treni di laminazione, per cui non sono razionalmente praticabili modeste riduzioni produttive.

L’assetto produttivo di Taranto o è da 8/10 milioni di tonnellate oppure da 4/5 milioni: vie di mezzo sono antieconomiche.

Va sottolineato anche che questi impianti possono fare solo quello per cui sono stati progettati e costruiti. Non ha senso parlare di conversione: è come voler raddrizzare le gambe a un cane.

Evoluzione della produzione di nastri nel mondo.

Nei paesi emergenti continuano ad essere installati impianti siderurgici anche con l’apporto, se non addirittura in società (joint venture), degli stessi produttori europei, che contribuiscono così ad accrescere le tensioni del settore in Europa.

D’altro canto, nella produzione di nastri di acciaio, i costi di trasformazione nei paesi emergenti sono e saranno sempre più bassi di quelli europei.

La Comunità Economica Europea in futuro non potrà che continuare nella politica di contenimento delle capacità produttive europee e quindi di ILVA Taranto che produce il 50% dell’acciaio italiano.

Margine operativo lordo e profitti.

La grande siderurgia, quasi ovunque, realizza Margini Operativi Lordi (M.O.L.) mediocri, con profitti modesti. Essi diventano immediatamente perdite se l’azienda ricorre all’indebitamento, che in breve tempo la condanna a morte.

Chi vuole comperare ILVA deve disporre di ingenti capitali propri. Ma chi è disposto a investire tanto con la prospettiva di guadagnare così poco e con tanti rischi?

Leve per la ristrutturazione.

L’Azienda siderurgica, per sua natura, è un’Azienda dalle “leve bloccate” o quasi:

- il prezzo di acquisto delle materie prime (minerale di ferro e fossile) è “subìto”;

- il prezzo di vendita dei nastri di acciaio (coils) è determinato dal mercato mondiale, spesso in maniera imperscrutabile;

- solo sul costo di trasformazione ci sono margini di manovra con l’innovazione tecnologica, comunque di incidenza modesta in un prodotto maturo come l’acciaio. Più significativi sono i margini di manovra sulla “gestione” della forza lavoro.

In conclusione, finora quasi tutte le ristrutturazioni siderurgiche si sono tradotte in progressive riduzioni di personale, fino alla chiusura definitiva. Mi vengono in mente le vicende di Cornigliano, Bagnoli, S. Giovanni Valdarno, Porto Marghera, Sesto S. Giovanni, Cogne, Lovere, Trieste, Campi, ecc. In quei casi lo scotto, da chiunque pagato, non è stato sufficiente a impedire la dismissione degli impianti e l’ulteriore impoverimento industriale italiano. Le leggi del mercato sono ineludibili.

Caratteristiche del Compratore.

Con lo scenario sopra delineato, quali sono le vere motivazioni degli aspiranti compratori?

Vogliono comperare una grande fabbrica per farla funzionare e guadagnare quattrini o che altro? Dispongono di sufficienti risorse finanziarie proprie? Hanno esperienza di conduzione e gestione di stabilimenti di queste dimensioni e caratteristiche? Hanno soprattutto un progetto industriale realistico che tenga conto dell’evoluzione della produzione di nastri di acciaio nel mondo e delle caratteristiche impiantistiche di ILVA Taranto?

Atteggiamento del Venditore.

Con quale atteggiamento il Venditore affronta la questione? Vendere a tutti i costi, pur di liberarsi della siderurgia pubblica o creare le condizioni affinché la vendita sia vantaggiosa per lo Stato?

E’ ben vero che sono stati coinvolti prestigiosi Istituti Economici Internazionali, ma chi interpreta e cura gli aspetti industriali? Chi guarda con lungimiranza agli interessi generali, senza farsi affascinare dalle grandi sintesi e dalle capacità dialettiche del “demiurgo di turno”?

Errori del passato.

Purtroppo la storia dell’I.R.I., e più specificatamente della siderurgia pubblica, è piena di esempi di insipiente arroganza e di casi in cui sulla ragione, sul buon senso e sugli interessi generali e a lungo termine hanno prevalso motivi occulti o ben mascherati se non addirittura interessi di bottega.

Per avvalorare questa affermazione, mi limito a ricordare brevemente alcuni casi, emblematici per entità di danni generali provocati o per “incomprensibilità” delle motivazioni.

1.  La dislocazione e il layout del Centro Siderurgico di Taranto, con la parte più sporca e inquinante addossata alla città, con danni ambientali enormi ed irreversibili.

2.  Il “raddoppio” dello stesso, iniziato abusivamente, alla chetichella, quando infuriava la bagarre di Gioia Tauro, con decisioni strategiche assurde, vanamente ostacolate da personaggi autorevoli come Puri e Fantoli che si dimisero per protesta. Nessuno al mondo faceva più stabilimenti di quelle dimensioni mostruose. Dal punto di vista impiantistico e di processo venne confermato il colaggio in lingotti e gli slabbing, quando ormai le colate continue erano un fatto acquisito e Taranto stessa ne aveva già un esemplare. Dopo pochissimo tempo e dopo aver speso inutilmente tanti miliardi, colaggio in lingotti e slabbing furono dismessi.

3.  L’ammodernamento scoordinato di Cornigliano e di Bagnoli in base al quale in uno stabilimento si realizza l’area fusoria nuova e nell’altro l’area laminazione nuova, con la brillante conclusione di spendere una gran quantità di quattrini per avere due stabilimenti entrambi zoppi ed entrambi ineluttabilmente chiusi.

4.  Il conferimento ad ILVA di “Terni Acciai Speciali SpA” nonostante il parere contrario di dirigenti, operai, sindacati, imprenditori, politici e cittadini che giunsero ad “occupare” la sede centrale dell’ILVA a Roma per evitare che un’azienda sana finisse male. Dopo 5 anni di ILVA e tanti sperperi, nasce “Acciai Speciali Terni SpA” e viene privatizzata.

5.  La dismissione degli impianti per il tondino per cemento armato di Terni, impianto appena modernizzato, dislocato a ridosso dei grandi bacini di Roma e della Campania terremotata;

6.  Le rocambolesche vicende di Italimpianti/Iritecna, iniziate all’epoca della liquidazione della Finsider e non ancora concluse.

7.  La “riorganizzazione” di ILVA al centro e in periferia, che ha distrutto tutto il know-how accumulato in venti anni di collaborazione con i siderurgici giapponesi. E’ continuato il mal vezzo di “telecomandare” lo stabilimento con un management disposto ad ascoltare solo se stesso, con la velleità di “mettere le cose a posto” senza neanche conoscerle e fallendo in maniera disastrosa, pur essendo stato accreditato a lungo come “risanatore”, che riceveva prestigiosi riconoscimenti nazionali e internazionali.

8.  La chiusura della Trafileria Falck di Sesto S. Giovanni, economicamente in utile e impiantisticamente a posto, rinunciando a quote di mercato a favore di chissà che cosa.

9.   Tanti altri episodi ancora, che in questo momento non mi vengono in mente.

Purtroppo però questi fatti e misfatti restano poco conosciuti ed isolati e non c’è nessun organo dello Stato, nessuno studioso, nessun giornale economico che li analizzi seriamente, almeno per stabilire dove si è sbagliato. Ciò servirebbe anche per non ripetere gli errori fatti, soprattutto quando questi errori provocano guasti di migliaia di miliardi e danni umani a non finire ed è difficile far passare tutto per “rischio di impresa”.

Dopo questo elenco di fatti e misfatti, sono legittimi dubbi e sospetti sulla bontà delle soluzioni definite tra “pochi intimi nel chiuso delle stanze dei bottoni”.

Conclusioni.

Sarebbe molto presuntuoso da parte mia indicare soluzioni concrete su come privatizzare l’ILVA. Sono in grado solo di formulare degli auspici che indirizzo a quanti hanno o avranno voce in capitolo su questa vicenda. Occorrerebbe:

a.  vigilare attentissimamente per neutralizzare chiunque abbia l’obiettivo nascosto di “liberarsi comunque della siderurgia pubblica”, indipendentemente da quello che succederà il giorno dopo la privatizzazione;

b.  verificare con cura e intransigenza che il progetto industriale di chi aspira ad acquistare ILVA sia in sintonia con lo scenario prima delineato. Sono convinto che non è utopistico e velleitario solo un progetto industriale che preveda a medio termine un drastico ridimensionamento delle capacità produttive dello stabilimento e il contemporaneo avvio di altre attività produttive, che sfruttino le infrastrutture, i servizi, i fabbricati, le aree, le professionalità, ecc. Per fare questo occorre un Grande Progettista, fantasioso, inossidabile, coraggioso e con una grande credibilità internazionale;

c.  assicurarsi che ILVA sia venduta a chi disponga di effettive risorse finanziarie e che non debba ricorrere all’indebitamento. Inoltre dovrebbe avere una consolidata vocazione industriale che gli consenta di non pensare di poter “telecomandare” la fabbrica o di tenere separate “le braccia dalla mente”;

d.  inventare un “articolato” che consenta alla collettività di beneficiare in qualche modo di quanto finora fatto e speso, che contribuisca alla crescita culturale ed economica del territorio, che impedisca di “disfarsi di Taranto” in maniera brutale, con enormi guasti sociali.

L’intera collettività italiana ha sopportato danni economici immensi e inquinamenti e degradi ambientali irreversibili. Abbiamo tutti il diritto morale oltre che il dovere intellettuale di esercitare ogni pressione possibile per far sì che questa volta le cose siano fatte con conoscenza di causa e con lungimiranza. Biagio De Marzo

Il ministro Ferrara non rispose. A Taranto ci sono stati incontri e dibattiti inconcludenti e rassegnati. Poi si insediarono i Riva e cominciò un’altra storia, per il Siderurgico e per Taranto.

Biagio De Marzo

(13. continua)

* Federmanager Taranto

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