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L'intervento

La vera domanda è: siamo ancora in tempo per salvare l'ex Ilva di Taranto?

Senza un serio piano di manutenzione e rilancio industriale sostenuto da adeguate risorse pubbliche, è illusorio sperare che eventuali acquirenti possano caricarsi il peso di un impianto superato e a rischio

Ex Ilva al bivio

Ex Ilva al bivio

TARANTO - Sul più grande stabilimento siderurgico a ciclo integrale d’Europa, l’ex Ilva di Taranto – oggi Acciaierie d’Italia (AdI) – sembra incombere una maledizione, degna di quella di Tutankhamon.

Scherzi a parte, l’ennesimo incidente ha riacceso le paure e le incognite e i dubbi sul futuro dell’impianto. Nel mese passato c’è stato l’incontro sindacato, commissari in as e governo che, alla luce dei fatti, si è risolto con un buco nell’acqua. Le organizzazioni sindacali metalmeccaniche si sono sentite “umiliate e offese”, ma per carità di patria hanno tenuto il profilo basso. Ma fino a quando potranno sopportare simile andazzo, con 5000 lavoratori in cassa integrazione e si prevedono, quanto prima, dirigenti in aggiunta, per via dell’Altoforno1?

 

Intanto, il 7 maggio un incendio ha colpito l’Afo1, inaugurato in pompa magna solo pochi mesi fa dal ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso. Due erano gli Altiforni in marcia l’Afo1 e l’Afo 4, ora, in funzione c’e’ solo e soltanto quest’ultimo. Il rogo, provocato - secondo la versione aziendale - da un’“anomalia improvvisa” al sistema di raffreddamento, non ha causato feriti, ma ha avuto pesanti ripercussioni operative e giudiziarie.

 

La procura di Taranto aveva disposto il sequestro dell’altoforno e ha indagato tre dirigenti di Acciaierie d’Italia: il direttore generale, quello dello stabilimento e il responsabile dell’area altiforni. Le accuse sono gravi: omissione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro e “getto pericoloso di cose”, reato che si configura in presenza di emissioni nocive di fumi o vapori. Di grazia, è un giallo, perché i tre manager sono indagati, visto che lo scoppio riguarda l’Afo1 e per colpa del crogiolo adattato all’uopo e, per giunta, obsoleto. E i manager responsabili degli altiforni che dicono e la ditta appaltatrice che ha fatto tutti i lavori non sapeva cosa montasse? Ironia della sorte, Urso si vantava ciò che in dieci anni non era stato fatto, in pochi mesi, Afo1 era in marcia. Lodando i tecnici cui veniva dato un eccessivo premio di produzione. Nel mentre, circa 70 operai risultano temporaneamente inattivi, in attesa di nuove disposizioni, e vengono impiegati in attività formative. Si prevedono dipendenti - come detto - in cassa integrazione.

 

Si pensava che il sequestro dell’Afo1 avesse comportato anche l’inibizione all’uso, che avrebbe inevitabile un maggior numero di operai in cassa integrazione. Meno male che la Procura ha stabilito la messa in sicurezza dell’Afo1 e ha evitato il danno di 100 milioni di euro e il serio rischio di allontanare il compratore azero Baku Steel. Questo incidente arriva in un momento cruciale: mentre è in corso una delicata trattativa per la cessione di AdI al gruppo Baku Steel, l’ennesimo episodio di disfunzione e rischio potrebbe allontanare potenziali investitori. L’impianto continua così a bruciare - letteralmente e simbolicamente - sotto il peso di una crisi che affonda le radici nel tempo. Dal sequestro dell’area a caldo disposto nel 2012 dal GIP Patrizia Todisco - e confermato dal Tribunale del Riesame - la parabola dell’Ilva è stata una lunga discesa tra commissariamenti, passaggi di proprietà, piani industriali mai realizzati, manutenzioni solo d’emergenza.

 

I vari tentativi di rilancio si sono infranti contro un’infrastruttura ormai obsoleta e una gestione discontinua: dai Riva all’intervento pubblico con i commissari Gnudi, Carrubba e Laghi, dal subentro di ArcelorMittal (68%) fino al ritorno allo Stato, che oggi controlla il 32% e gestisce AdI attraverso tre commissari straordinari: Quaranta, Tabarelli e Fiori. Tra questi, Gianfranco Quaranta è l’unico a conoscere a fondo la realtà dello stabilimento. Ma neppure la sua esperienza può compensare anni di mancati investimenti e scelte sbagliate. Il ministro Urso ha più volte detto che Taranto ha rischiato la fine dell’impianto di Bagnoli, ossia la chiusura. Tuttavia il caso Bagnoli fu un’altra storia: la crescente obsolescenza degli impianti, unita alle pressioni economiche e alle direttive comunitarie delle quote per paese Ue superavano quelle stabilite per l’Italia, portò alla chiusura definitiva dell'area a caldo dello stabilimento nel 1990, con l'ultima colata di acciaio. Come direbbe un moderno Sherlock Holmes, il mistero non si risolve nei corridoi del MIMIT, ma in quelli del MEF o di Palazzo Chigi, dove si decidono le reali strategie finanziarie. Perché è lì che si dovrebbe rispondere alla domanda fondamentale: si vuole davvero salvare l’ex Ilva? La realtà è che, senza un serio piano di manutenzione e rilancio industriale sostenuto da adeguate risorse pubbliche, è illusorio sperare che eventuali acquirenti - Baku Steel compresa - possano caricarsi il peso di un impianto superato e a rischio.

Eppure, il governo Meloni non può permettersi una chiusura che avrebbe un costo sociale devastante per Taranto, la fuoruscita dalla siderurgia pubblica e un impatto economico nazionale non trascurabile. Mentre la trattativa con gli azeri va avanti in un clima sempre più incerto a stop and go, l’ex Ilva resta un nodo irrisolto del sistema industriale italiano. Tra commissari straordinari, inchieste giudiziarie e altiforni in fiamme, lo spettro della paralisi è sempre più concreto. E la vera domanda resta sospesa: dopo oltre un decennio di crisi, siamo davvero ancora in tempo per salvare Taranto?

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