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Bari
11 Marzo 2025 - 11:56
Un'aula di Tribunale
BARI – La Corte di Cassazione ha messo la parola fine a una delle vicende giudiziarie più drammatiche degli ultimi anni, confermando la condanna a 29 anni di reclusione per Giuseppe Difonzo, 38 anni, di Altamura, ritenuto colpevole dell’omicidio volontario della figlia Emanuela, di appena tre mesi.
La piccola morì soffocata nella notte tra il 12 e il 13 febbraio 2016, mentre si trovava ricoverata presso l’ospedale pediatrico Giovanni XXIII di Bari. Una tragedia che, secondo le risultanze processuali, fu l’epilogo di una serie di episodi violenti compiuti dal padre, che nei pochi mesi di vita della bambina avrebbe già tentato di ucciderla due volte, nel novembre 2015 e nel gennaio 2016.
La lunga battaglia giudiziaria si era aperta con una prima condanna a 16 anni per omicidio preterintenzionale, emessa in primo grado. In appello, i giudici avevano ribaltato la sentenza, infliggendo l’ergastolo per omicidio volontario premeditato. Tuttavia, la Suprema Corte aveva annullato quella decisione, ordinando un nuovo processo.
Nel successivo giudizio di secondo grado, la Corte d’Assise d’Appello aveva infine riconosciuto a Difonzo le attenuanti generiche, stabilendo la pena di 29 anni, ora definitivamente confermata.
Secondo quanto emerso dalle indagini, Difonzo avrebbe approfittato di un momento in cui era rimasto da solo con la neonata in reparto per compiere l’omicidio in pochi minuti. La bambina, nei suoi soli tre mesi di vita, aveva già trascorso più di 60 giorni in ospedale, a causa di gravi crisi respiratorie, attribuite dai medici – e successivamente anche dai giudici – proprio agli atti violenti del padre.
Le motivazioni della sentenza tracciano un quadro psicologico inquietante. I giudici hanno sottolineato come l’uomo considerasse la presenza della figlia “un ostacolo e un peso insostenibile”, poiché la nascita della bambina lo avrebbe costretto ad assumersi responsabilità per lui del tutto estranee.
“Sopprimerla – scrivono i magistrati – era il mezzo per sottrarsi all’impegno di simulare un coinvolgimento emotivo”, aggiungendo che non vi erano elementi per ricondurre le sue azioni a una presunta sindrome di Munchausen, ipotesi avanzata dalla difesa. “Non si trattava di una richiesta di attenzione, ma di un deliberato e lucido proposito omicida”, si legge nelle carte processuali.
Con la conferma della condanna da parte della Cassazione, per Difonzo si riaprono le porte del carcere. Un esito che chiude un doloroso capitolo giudiziario, ma che lascia un segno indelebile per la gravità dei fatti e la giovanissima età della vittima, una bambina strappata alla vita nel luogo che avrebbe dovuto proteggerla.
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