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Il ricordo
31 Dicembre 2024 - 08:00
Walter Pedullà
“Ci vuole molta arte del dire per poter dire chiaramente anche le cose non chiare che è urgente dire”. Walter Pedullà, “L’estrema funzione”, Marsilio, 1975.
Il mio incontro con Pedullà fu casuale e fortunato. Quando lasciai Perugia e la Facoltà di Medicina per passare a Lettere a Roma c’erano ancora i piani di studio liberi, compresa la possibilità di includervi fino a due “insegnamenti” di qualsiasi altra Facoltà, quand’anche del tutto incongruenti. Per capirci: nel mio piano di studi di Lettere avrei potuto includere Biologia, col suo 26 strappato a Perugia, riducendo così da venti a diciannove gli esami ancora da sostenere. Ma con un moto di orgoglio decisi che non volevo “rovinarmi la media” prima ancora di cominciare col nuovo corso di studi...
I piani di studio, dicevo, erano liberi: si poteva spaziare con ampia discrezionalità fra le “materie”. Però c’era una rigidità: c’erano insegnamenti bi e tripartiti in varie cattedre, alle quali si veniva assegnati in base al cognome. Per questioni quindi alfabetiche mi ritrovai assegnato per l’insegnamento di Storia della letteratura italiana moderna e contemporanea alla cattedra di Walter Pedullà. E fu un gran colpo di fortuna. Il programma ed i libri che proponeva mi conquistarono subito. A lezione ci andavo poco (due anni di esilio tarantino, poi il lavoro assorbente dopo il ritorno a Roma, fornivano una comoda scusa), ma a quelle di Pedullà ci andavo volentieri. In realtà, nei primi anni universitari, i miei eclettici piani di studio erano più orientati sul versante storico; la mia ancora fumosa idea era di laurearmi in Storia dei partiti politici, cattedra retta da Renzo De Felice, col quale ebbi un abboccamento per una tesi sul Futurismo politico. Poi De Felice ebbe l’idea di prendere a schiaffi il preside comunista di Lettere, e di trasmigrare a Scienze politiche. La tesi fuori Facoltà non me l’avrebbero mai concessa. Orbato della possibilità di occuparmi di Futurismo politico, ripiegai sulla Letteratura italiana moderna e contemporanea (della quale, comunque, avevo inserito fin dal primo piano di studi tre annualità: il massimo consentito). Anche perché Pedullà, fin dalle prima lezioni, mi aveva conquistato. Affabulatore, magnetico, cristallino nell’eloquio, era invece oscuro e criptico nella scrittura: ma anche quella scrittura ricchissima, complicata, ironica, con illuminazioni intensissime ed abbaglianti che rendevano però necessario un multiplo tornare indietro per rileggere, schermando gli occhi con lenti fotosensibili, un testo che si rivelava sempre più ricco di significati, oltre un significante scintillante e scoppiettante come un fuoco d’artificio.
Ho avuto insomma la fortuna, per sola virtù dell’alfabeto, di studiare con uno dei mostri sacri del contemporaneismo, erede e continuatore, attraverso Giacomo Debenedetti, del quale era stato assistente ed al quale era succeduto in cattedra, del primo titolare di un insegnamento di Storia della Letteratura italiana moderna contemporanea, Giuseppe Ungaretti, del quale appunto Debenedetti sarebbe stato assistente e successore; di dare tre esami di Storia della letteratura italiana moderna e contemporanea con lui e di laurearmici. Anzi, non fosse stato per lui, che a laurearmi mi ci aveva quasi costretto, quando dopo il servizio militare ero tentato di abbandonare gli studi (otto esami in circa sette anni, praticamente uno all’anno, per ottenere il rinvio della leva), e mi aveva pure messo fretta, avrei lasciato. Tanto, di lavorare lavoravo già da molti anni, e la laurea nel giornalismo di allora, come purtroppo ancora oggi, non “faceva titolo”.
Grande e profondo conoscitore dell’Avanguardia e del ‘900, eccezionale storiografo della contemporaneità in atto, indagatore dei meccanismi dell’umorismo e della comicità con la profondità di Bergson, di Pirandello, di Freud, senza seguire la via di nessuno dei tre ma un sentiero tutto suo, aspro e paradossale, erede della tradizione ormai persa della stroncatura ed animato da forte impegno civile, Pedullà, intellettuale a 360°, è stato, anche, un grande organizzatore di cultura.
I suoi libri erano tutt’altro che facili (mitiche sue note che si snodavano a piè di pagina, ridotta a poche righe, peraltro, proprio per il rigaggio della nota, per tre o quattro pagine; non meno mitici certi suoi periodi che fra incisi, parentetiche, subordinate varie riempivano una pagina e mezza prima del punto fermo), laddove le sue lezioni erano di esemplare ed immediata comprensibilità. Anni dopo, entrati ormai in confidenza, gliene chiesi il perché. La risposta fu a un dipresso che a lezione doveva essere chiaro perché lo imponeva la trasmissione orale (di esserci c’erano, a metà anni ‘70, ma non si usavano granché i registratori in Facoltà), ma che lo scritto era tutt’altra cosa. Non conoscevo ancora McLuhan, ma il senso alla fine era proprio quello del celebre aforisma secondo cui “il medium è il messaggio” (tra l’altro il più celebre dei suoi postulati, come rivelò lui stesso, era nato da un “errore di stampa”, che aveva affidato alla tipografia quello che Freud affidava al lapsus nel parlato: la frase originale era “il medium è il massaggio”, e stava ad indicare l’effetto “tattile” che i mezzi di comunicazione hanno su di noi fruitori). Ma la doppia motivazione che Pedullà mi diede per il suo ben differente registro di scrittura fu di uno splendore, e di una autoironia, da autentico Maestro: fulminante ed ironico come sempre mi rispose che a) se avesse scritto un libro chiaro lo avrebbero cacciato dalla corporazione accademica; b) che a lezione doveva farsi capire immediatamente dagli uditori, ma che il testo scritto più è complesso ed arduo più costringe a studiare, a sforzarsi di comprendere, e più consente una vera acquisizione di concetti e dati.
Come affermava uno dei sapienti dell’antica Grecia, potremmo dire, “io parlo oscuro perché tu mi intenda”. E Pedullà veniva dalla Magna Grecia: nato a Siderno (RC) nel 1930, si era laureato in Lettere a Messina con Debenedetti, del quale sarebbe poi stato assistente e successore in cattedra alla Sapienza, fino al 2005 della quiescienza, con la nomina a professore emerito e l’ultima lezione su uno dei suoi beniamini, Stefano D’Arrigo.
Ormai un po’ di anni fa - primavera del 2017 - a grande distanza dalla mia tardiva laurea, sono andato in pellegrinaggio nella mia antica Facoltà, al cui interno non avevo messo più piede dalla seduta di laurea (all’esterno, fra viali, piazzali e bar della Sapienza c’ero tornato più volte, complice la Goliardia), e sono andato a vedere se, nel Dipartimento, c’era per caso un ufficio del professore emerito, allora 87enne. Delusione. I bidelli (o come si chiamano adesso) non l’avevano mai sentito nominare. Ed un paio di più o meno giovani docenti di passaggio in Facoltà, ai quali un bidello mi aveva indirizzato, non lo conoscevano affatto. Oso sperare che fossero di tutt’altro Dipartimento. Delusione.
Alcuni dei suoi libri sono andati perduti fra traslochi vari; e allora li ho ricomprati su eBay. Li sto rileggendo, a tratti; e sì, sono difficili: adesso ancor più di allora, perché disusato a quel tipo di impegno e di studio; richiedono una forte masticazione; ma gli umori e la complessità dei sapori che rilasciano sono un delizia.
Conoscitore e profondo indagatore delle Avanguardie, organizzò nel 2010, nell’ambito delle celebrazioni per il centenario del Manifesto di fondazione del Futurismo, il convegno internazionale di studi “Il Futurismo nelle Avanguardie”, del quale curò il monumentale catalogo. Ma delle Avanguardie aveva disvelato soprattutto – studiando, ristudiando e facendo ripubblicare, per esempio, il suo amato Palazzeschi – i risvolti comici e ludici. Memorabili in proposito anche i suoi saggi sull’umorismo in Svevo, Malerba, Savinio, Gadda o su cosiddetti “minori” come Campanile (temi che riprenderà anche, in chiusura dell’attività accademica, in “Quadrare il cerchio. Il riso, il gioco, le avanguardie nella letteratura del Novecento”). Senza trascurare le indagini in presa diretta, vera apoteosi del contemporaneismo, sulla “Letteratura del benessere”, su “L’estrema funzione” (sulla letteratura degli anni ’70), o sul “Morbo di Basedow”, uno studio sull’Avanguardia con titolo ed andamento presi in prestito da un sarcastico Svevo.
Quanto all’impegno civile e “politico”, nel senso di chi si prende cura della pòlis, ci sono due interessanti, sulfurei, lampeggianti volumetti: “Sappia la Sinistra quello che fa la Destra” e “Il vecchio che avanza. Scampoli di politica e letteratura degli anni zero”.
Nel campo dell’editoria aveva fondato con Manganelli, Malerba ed altri la Cooperativa scrittori (della quale fu anche vicepresidente) ed aveva diretto la casa editrice Lerici. Nel 2001 aveva fondato due interessanti riviste letterarie: L’Illuminista e Il Caffè illustrato.
Nel suo ultimo libro, ad andamento autobiografico, “Il pallone di stoffa. Memorie di un nonagenario”, Pedullà racconta anche della sua morte e resurrezione – non in senso letterario o simbolico ma “una volta, quasi due”, con arresto delle funzioni vitali e ripresa in extremis. E col sorriso insieme bonario e sulfureo del suo amato Svevo, commenta: ‘’soltanto chi arriverà alla fine saprà se ha vissuto una vita tragica o comica. Se la conclusione sembra ridicola, ridiamone’’.
Post scriptum: quelli erano anni di appartenenza politica ed ideologica forti, e sapevo bene che Pedullà era socialista, e socialista di sinistra. Molto differente nelle scelte politiche da me. Ma avevo, come peraltro oggi, ma negli anni ‘70 era più difficile, molti amici con scelte ideologiche e politiche molto differenti dalle mie, monarchici, neofascisti, radicali, sedicenti maoisti, comunisti, extraparlamentari di destra e di sinistra, anarchici; e la cosa non minava in nulla la nostra amicizia. Pedullà era un grande della critica letteraria, e peraltro, giornalista tutt’altro che occasionale, esercitava la critica militante, oltre a quella accademica, ed era grandissimo anche nella funzione docente; sapeva suscitare interesse e fame di sapere nei suoi studenti. E solo questo contava.
Sarebbe stato in seguito un eccellente presidente della Rai, in prosecuzione di un impegno che lo aveva visto a lungo consigliere d’amministrazione e presidente, aprendo l’azienda radiotelevisiva pubblica a sempre più interessanti sperimentazioni (difese e sostenne in più occasioni, venendo ricambiato con amara irriconoscenza, Manca e Guglielmi), e come presidente del Teatro di Roma avrebbe donato alla capitale irripetibili ed irripetute stagioni di grande teatro: dai classici moderni ai kolossal al teatro d’avanguardia, innovazione, sperimentazione. Ha poi curato due collane di grande importanza scientifica: “Cento libri per mille anni”, edito dall’Istituto poligrafico e zecca dello Stato (cento volumi, appunto; due dei quali da lui redatti, ed altri due dei quali è stato coautore), e, in collaborazione con un altro italianista di vaglia, Borsellino, “Storia generale della letteratura italiana”.
Decano del consiglio Rai (dal 1977 al 1992) e poi, dal 1992 al 1993, suo presidente, ha ricevuto dalla più grande azienda culturale italiana (tale è, nonostante tutto) l’ultimo schiaffo; che in ultima analisi si è rovesciato in realtà sugli incolti ed immemori redattori in turno il 26 dicembre.
Nel dare notizia della sua scomparsa, il Tg 2 ed il Tg1 delle 13,00 e delle 13,30 hanno liquidato il tutto in pochi secondi, aggiungendo il cordoglio della attuale dirigenza Rai. Senza nulla dire dell’immenso operato culturale del nostro. In telegiornali pieni di lunghissimi servizi su cantanti evidentemente “apparentati” e ridicoli spottoni turistico-nevosi o pseudo-culturali Una vergogna. Quanto a RaiNews24, nemmeno la notizia nel rullo (se ne sono accorti solo in tarda serata; meglio tardi che mai: ma solo la notizia, non un servizio).
Come lo schiaffo di Svevo sul quale aveva costruito uno dei suoi mirabili testi, lo schiaffo di Walter in articulo mortis colpisce dei cialtroni. Non avevano l’obbligo di conoscerlo, la sua presidenza risaliva ad un’epoca in cui molti di loro erano ancora alle scuole medie (malfrequentate) ma l’obbligo di documentarsi su chi fosse stato quello sì, ce l’avevano. E il grande stroncatore ha stroncato loro.
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