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L'analisi

Le elezioni americane e la Taranto periferica che dovrebbe riconoscersi “centrale”

«Alcuni rapporti, come le concessioni portuali, è ovvio vedranno mutare ampiamente i paradigmi in base a cui son stati stipulati»

Donald Trump, eletto per la seconda volta presidente degli Stati Uniti

Donald Trump, eletto per la seconda volta presidente degli Stati Uniti

Il 6 novembre l’Europa s’è svegliata con una sorpresa: Donald Trump rieletto a larga ed indiscutibile maggioranza. Primo nel voto nazionale (5 milioni di consensi in più), primo in tutti e sette gli stati ‘contesi’, stragrande maggioranza delle contee vinta, dominio sia alla Camera che al Senato. Insomma, padrone degli USA.

A dire il vero, i ben informati sapevano come da almeno un mese fosse in vantaggio sulla Harris, ma il fatto stesso che pubblicamente venissero dati alla pari raccontava molto: in nessuna elezione precedente il magnate era risultato vicino ai competitori, nei sondaggi. Ed anche quando aveva poi perso, con Biden, il distacco s’era rivelato irrisorio rispetto all’abisso presentato per mesi dai giornali e dalle televisioni. Ciò apre una questione profonda, tutta interna al giornalismo - ed alle agenzie di sondaggi - incentrata sulla necessità, evidentemente obliata, di non scambiare i desideri con la realtà: cosa permessa al cittadino, anche se poco saggia, ma antitesi della professione di chi è tenuto all’oggettività perché il lettore possa riflettere e decidere da sé, alla luce dei fatti.

Inoltre, i numeri delle elezioni trascorse e recentissime sono già sotto la lente: probabilmente alcune metodologie di voto (postale ed elettronico) verranno soggette a più stringenti regolamentazioni dalle camere a maggioranza repubblicana, perché oggettivamente poco sicure e fonti di continua incertezza: non a caso nessuno nel mondo le adotta. Il discorso è molto affascinante, ma esula dal senso di questo scritto: pensiamo invece al nostro futuro di europei. Siamo di fronte ad una visione del Mondo ormai radicalmente divergente, fra Stati Uniti ed Europa. I rapporti migliori col movimento ‘MAGA’ (‘Make America Great Again’) pare averli solo Orban e qualche altro governo dell’ex Asburgo. Del resto, Trump avrà il primo incontro internazionale post trionfo con Javier Milei. Un argentino ultraliberista (per una volta il termine può essere usato secondo il vero senso), che ha deciso di tagliare i ponti con l’esosa e pletorica burocrazia, il debito pubblico e l’idea che ovunque vi sia un bisogno vi sia un diritto. Chi s’affretta ad incontrare Milei che rapporto stretto potrebbe aver mai con la destra sociale del Governo Meloni, al netto di alcuni meeting, temiamo sopravvalutati, con Elon Musk (il quale nel governo Trump avrà peraltro un ruolo assai prossimo alle teorie di Milei)? Che relazione avrà col Macron dell’oltranzismo filo-ucraino e del cordone sanitario intorno alla maggioranza relativa di Le Pen? Che feeling ci sarà col progressismo tutto immigrazione e minoranze del britannico Starmer, alquanto simile alle politiche dei democratici USA di Biden ed Harris, appena sconfitti dai repubblicani? La corsa alle elezioni a cui la Germania obbliga il pencolante Scholz qualcosa dovrebbe dirci: Il mondo che arriva è assai diverso da ciò che fu, dal dopoguerra in poi. Piaccia o no, servirà una nuova Yalta: vedremo quando e come sarà. Nel mentre, è la Cina a pagare uno dei dazi maggiori: le sue esportazioni -come pure quelle europee- saranno soggette ad esazioni salatissime. E ciò è sicuro, incardinato nel nitido programma di Trump, come è quindi sicuro il ritorno in soffitta, sine die, della ‘via della seta’. Una mareggiata geopolitica che ci risospinge sulle coste dello Jonio, nella Taranto il cui porto era destinato ad essere uno dei maggiori di tale asse euroasiatico, a giudicare dalle operazioni politiche e commerciali degli ultimi 15 anni. Alcuni rapporti, come le concessioni portuali, è ovvio vedranno mutare ampiamente i paradigmi in base a cui son stati stipulati. Non dimentichiamo, inoltre, che Donald Trump è il Presidente del ‘se volete ancora la NATO, pagatevela, cari europei’. Da un lato ciò potrebbe far immaginare un rinato ruolo militare di Taranto, con relativi investimenti nazionali ed europei (a trovar le risorse), ma dall’altro fa temere il disimpegno americano dalle grandi basi presenti in tutta la provincia. Last but not least -ultima ma non in ordine di importanza- la questione infinita e surreale della ex ILVA. L’acquirente ipotetico numero uno, ucraino, deve oggi fare i conti con le rinnovate difficoltà della sua nazione a tener testa alla Russia: il Presidente USA in pectore non ha fatto mistero d’esser pronto ad ascoltare le richieste (corroborate dai missili) di Putin, che priverebbero definitivamente Metinvest di impianti minerari e produttivi fondamentali, ovvero di risorse e prospettive. Gli stessi ventilati azeri si trovano proprio sulla ‘via della seta’ di cui abbiamo appena parlato, chissà quindi cosa il nuovo mondo prevede per loro e quali imprevisti abbiano da affrontare. Quale sarà il costo dell’energia e delle materie prime, nel nuovo contesto? La guerra dei dazi favorirà o sfavorirà la siderurgia italiana? Non è nemmeno escluso che il terremoto americano abbia influenza sulla già esoterica acquisizione del Taranto calcio, come ad esempio pare accaduto al dossier Ita-Lufthansa: mutatis mutandis, la sensazione è che il messaggio MAGA, molto localista e nazionalista -cioè spendere i soldi in casa propria perché non sono abbastanza per voli pindarici- possa esser colto da quasi tutti gli scenari. Questo detto, emerge un dato importante, che a Taranto è costantemente dimenticato per un insieme di ragioni storiche e culturali che contraddistinguono le elite cittadine, spesso sprovviste di adeguato spessore culturale ma soprattutto di contezza e visione internazionale. La raffineria e la siderurgia, il porto, i ‘due mari’, le basi militari, persino le minuscole isole, sono un rilevante asset globale, più che nazionale: quindi geopolitico. I grandi cambiamenti del Mondo, per quanto bizzarro possa sembrare, riverberano prima qui che a Roma: sarebbe l’ora di farci caso, per non farsi cogliere impreparati come sempre.

Pasquale Vadalà

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