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La storia
19 Ottobre 2024 - 06:00
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«Il giorno del mio matrimonio attesi mia moglie in chiesa giocando con gli amici a “spaccacroce”, un gioco che si faceva con le monete lanciate contro il muro». La storia di Antonio (nome di fantasia) potrebbe in fondo racchiudersi anche qui: la compulsione del gioco che non si ferma neanche a due passi dall’altare, il giorno delle nozze. Ma quello era soltanto un sintomo, una traccia di ciò che sarebbe venuto in seguito, vissuto allora come un innocente momento di svago in attesa della promessa sposa, complice la giovanissima età.
«Sì – racconta oggi Antonio – la compulsione del gioco era già dentro di me». E sarà un virus che divorerà Antonio per ventisette lunghi anni.
«Non sapevo che fosse una malattia, ero convinto che si trattasse di un vizio recuperabile». Antonio invece trascinerà nel gorgo della disperazione l’intera sua famiglia: moglie e figli. Un vortice nel quale brucerà stipendi e risparmi di un comodo posto statale accompagnato anche da una attività commerciale. Gioco del lotto, scommesse, gratta e vinci: tutti giochi nei quali Antonio ha annegato i denari di famiglia, giochi avallati da quello Stato che finisce per accendere questi focolai di infezione. Ci vorranno ventisette anni per far comprendere ad Antonio di essere precipitato in una vera e propria patologia: «Chi è compulsivo non si ferma più. Non riuscivo più a pagare il mutuo, le bollette. Sono finito anche in mano agli usurai, che nella circostanza erano ex colleghi che mi prestavano soldi facendomi firmare cambiali. Non provavo alcuna vergogna nell’andare a casa loro, davanti alla loro famiglia, e firmare cambiali. Non avevo più rispetto di me stesso, di mia moglie, dei miei figli, di tutte le persone che mi stavano accanto, non avevo più alcun senso di responsabilità. E quando non bastavano nemmeno i soldi degli usurai, andavo a Bari in una agenzia finanziaria a firmare altre cambiali. Erano viaggi surreali: lasciavamo i figli a Taranto e portavo con me mia moglie, silenziosa, non diceva una parola».
Già, la moglie. La chiameremo Ada. È lei ad accorgersi che qualcosa non quadra: «Un giorno aprendo il comò, vidi una bolletta della luce scaduta. Rimasi perplessa perché Antonio mi aveva detto di averla pagata. La cosa mi insospettì e cominciai ad indagare. Alle mie domande lui rispondeva con frasi evasive». Piano piano, il velo che Ada aveva davanti agli occhi comincia a dissolversi: «Non volevo crederci, perché si vive di fiducia reciproca e io credevo alle sue parole. Anche i genitori si erano insospettiti». Alla fiducia che man mano svanisce subentra però il senso di colpa: «Io non lavoravo, ma dopo tre anni di matrimonio ho trovato un impiego. Non avevamo consapevolezza del problema, lui mi faceva vivere nell’illusione che avremmo fatto una grossa vincita e che la nostra vita sarebbe cambiata. Invece ero semplicemente salita sulla sua giostra e ho finito per sovvenzionare con i miei soldi il suo gioco senza esserne consapevole. Lo facevo per pagare i debiti, ma così alimentavo la sua compulsione. Temevo che senza i miei soldi potesse andare peggio, ma più paghi e più il gioco ti chiede il suo tributo, è come l’usura. Lui dipendeva dal gioco e io dipendevo da lui. Ci sono voluti ventisette anni per capire che quella di Antonio era una malattia». Una malattia che trascinerà Antonio nelle aule di tribunale per aver tentato di sottrarre valori dal suo luogo di lavoro: così la sua foto finisce persino in tv. Forse è il punto più profondo del pozzo di disperazione nel quale era finito.
A squarciare definitivamente il velo è una figlia di Ada e Antonio: capisce che esiste un problema e, da un’altra città nella quale si è trasferita, segnala un gruppo di auto-aiuto. «Ormai eravamo pieni di debiti – ricorda Ada – e non sapevamo più come fare. Antonio finalmente ammise il problema, in lui si stava manifestando la depressione: dormiva sempre, era assente. Solo fuori di casa diventava spavaldo. Un giorno lo affrontai e gli dissi: se ti vuoi salvare questo è il numero che devi chiamare. Era il numero del gruppo che mi aveva segnalato nostra figlia. A Taranto allora – parliamo di venti anni fa – non c’erano gruppi di questo tipo». Per Ada e Antonio cominciano dunque questi particolarissimi viaggi della speranza. Aiutati dai genitori.
Ma il problema era poi il ritorno a Taranto: «Lui mi diceva: chiudimi in casa a chiave e così facevo, terrorizzata però che in mia assenza potesse compiere qualche gesto estremo. Vivevo nel terrore di non trovarlo più in vita al mio rientro. Ero sola, nascondevo a tutti questa situazione, mi vergognavo».
Il percorso però è faticoso. Dice Ada: «La decisione spetta sempre a chi ha toccato il fondo e non trova più una strada per prendere in giro il prossimo con le bugie e i sotterfugi».
Venti anni di frequentazione dei gruppi sono stati una terapia efficace. Oggi Antonio è una persona diversa: «Non gioco più, io e mia moglie ci siamo ripresi la nostra vita». È proprio Ada, ancora una volta, a compiere il gesto finale, lo spartiacque tra il prima e il dopo: «Mi feci coraggio e con la forza di un leone affrontai l’usuraio che aveva prestato soldi a mio marito. Gli pagai l’ultima tranche del debito e gli dissi che se avesse ancora prestato soldi ad Antonio l’avrei denunciato».
La vita di Ada e Antonio è tornata a respirare serenità: «Con i soldi buttati al gioco avremmo potuto acquistare tre o quattro appartamenti. Oggi mi sono finalmente ritrovata con lo stipendio intero e in un anno siamo riusciti a sposare due figli». La loro esperienza è ora al servizio degli altri: «Il gruppo Giocatori Anonimi di Taranto l’abbiamo fondato noi. Anni fa ci rivolgemmo all’allora parroco della chiesa San Lorenzo da Brindisi, padre Damiano, che ci mise a disposizione gli spazi della parrocchia per incontrarci. Dobbiamo dire che tutti i parroci che si sono succeduti ci hanno offerto aiuto. Ci incontriamo ogni giovedì e sabato dalle 18 alle 20. I gruppi sono due: Giocatori Anonimi, riservato ai giocatori, e Familiari Gamanon, riservato ai loro familiari. Non si paga nulla».
All’interno dei gruppi si scopre che non ci sono barriere sociali: la ludopatia colpisce tutti, dal professionista all’operaio. Lì dentro si è tutti uguali e tutti coperti dall’anonimato.
«Abbiamo un programma preciso – specifica Ada – e funziona per chi cerca di uscire dall’incubo».
Antonio e Ada dall’incubo sono usciti.
I numeri da contattare:
Giocatori Anonimi: 340 1214014
Familiari Gamanon: 320 9648410
Gli incontri si svolgono nella parrocchia
San Lorenzo da Brindisi, in viale Magna Grecia n. 339
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