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Il libro

Il caso Moro: perché lo statista fu ucciso. Il contesto, le ombre, i dubbi.

Presentato al Senato il lavoro di Claudio Signorile e Simona Colarizi. Gli interventi di Veltroni, Scotti e Parrini

Claudio Signorile e Simona Colarizi

Claudio Signorile e Simona Colarizi

«Io e Simona Colarizi non abbiamo fatto una ricostruzione storica fine a sé stessa, ma abbiamo compiuto un tentativo, seppure parziale, di dare una risposta alla domanda “perché hanno ucciso Aldo Moro”». Così l’ex ministro Claudio Signorile ha offerto una chiave di lettura del lavoro pubblicato con la storica Simona Colarizi dal titolo “Il caso Moro tra politica e storia, presentato il 29 maggio a Palazzo Giustiniani, a Roma.

Al tempo del rapimento del presidente della Dc, Signorile era vicesegretario del Psi e fu tra gli esponenti politici più impegnati nella ricerca di una soluzione che salvasse la vita allo statista democristiano. In particolare, l’ex ministro fu impegnato a seguire da vicino le vicende del sequestro esplorando le possibilità di una eventuale trattativa che potesse concludersi con la liberazione di Moro.

Nell’inquadrare il periodo storico nel quale si svolsero quei tragici avvenimenti, Signorile ha sottolineato un aspetto politico fondamentale: «Mi è stata un po' criticata la frase all'inizio del libro, quando dico che Moro comincia a morire nel '75. Che vuol dire? Moro inizia a morire come figura storica e politica quando viene fuori con drammatica rilevanza il fatto che in Italia senza il Pci non si poteva impostare una strategia, non solo governativa». È partendo da questo presupposto, dunque, che si scatenano quelle dinamiche culminate con il rapimento e l’uccisione del presidente della Democrazia Cristiana.

«In quel periodo – ha spiegato l’ex segretario de Pd, Walter Veltroni - il contesto internazionale era quello di Yalta, il mondo separato in due, siamo in piena Guerra fredda. Moro e Berlinguer vanno oltre questa dimensione, vanno oltre Yalta ed è chiaro che quel grumo di cambiamento partito in quella stagione, era troppo». Veltroni si è poi soffermato sulle rispettive posizioni di visione di strategia di Moro e Berlinguer: «'Quando sento dire che Moro e Berlinguer avevano le stesse idee, non era così. Avevano due idee diverse. Berlinguer pensava che la solidarietà nazionale fosse la prosecuzione dell'esperienza della Resistenza. Moro aveva in testa altro: aveva in testa che fosse necessario una fase di legittimazione del Pci attraverso la sua presenza nella maggioranza con l'idea poi che si creasse un sistema dell'alternanza e con la convinzione che, data l'identità comunista del Pci, questa alternanza avrebbe portato all'egemonia della Dc».

Se questo era lo scenario politico nel quale è maturato l’assassinio di Moro, restano ancora molte ombre sulle fasi del sequestro e sul suo epilogo.

«Alla domanda chi ha rapito e ucciso Moro -a ha detto l’ex sindaco di Roma - la risposta è le Brigate Rosse. Ma non c'è dubbio che si sono dei punti, delle cose non ancora chiare. Non è spy story, non è dietrologia, non sono misteri, ma ci sono dei dubbi. In particolare, per primo: perché non ci danno i nastri dell’interrogatorio? Che nessuno ci racconti che stanno in un piazzale a Porta Portese o che se li sono dimenticati. Secondo: ci sono due date torbide. Una è il 18 aprile, il lago della Duchessa. Chi lo scrive quel documento, perché lo scrive e perché è stato scelto quel giorno? E perché in coincidenza con la scoperta di via Gradoli? E poi c'è la data dell'8 maggio, lo si dice nel libro. Quella mattina stava per succedere qualcosa, Bartolomei stava per prendere la parola in una riunione della Dc per fare un'apertura alla quale era pronto l'allora presidente della Repubblica Giovanni Leone, che, voglio dirlo, è stato fatto oggetto di una campagna denigratoria animata da Mino Pecorelli, ma era un grande cultore delle istituzioni».

Veltroni ha poi ricordato un episodio: «Quando ero direttore dell'Unità e andai a intervistare in carcere Prospero Gallinari, ebbi la sensazione di trovarmi non di fronte a un agente dei servizi segreti ma di fronte a uno che veniva da una storia precisa. Dunque sappiamo chi ha ucciso Moro, ne conosciamo i nomi. Poi quanti volessero che Moro morisse, è un altro discorso. Quanti hanno lavorato perché Moro morisse, è un altro discorso».

Tra i relatori al dibattito moderato da Enrico Mentana, anche Dario Parrini, senatore Pd e l’ex ministro democristiano Enzo Scotti, che ha invitato a riflettere: «Fino a poco tempo fa tutti si sono concentrati su chi ha ucciso Moro. Ora, finalmente, hanno iniziato a concentrarsi sul perché l'hanno ucciso. La grande questione, infatti, è perché Moro è stato assassinato».

Merito dunque la lavoro di Signorile e Colarizi che in questo libro hanno trattato il caso Moro sotto una prospettiva originale, diversa da quelle fino ad ora battute, come lo stesso Veltroni ha riconosciuto: «In questo libro c'è un lavoro serio da speleologi di un tempo. Signorile e Colarizi riescono a fare una operazione che secondo me era l'unica operazione culturalmente e politicamente interessante, e cioè, riportarci in quel periodo». 

Nella affollata sala, tra il pubblico anche noti esponenti di rilievo della Democrazia Cristiana di quegli anni, tra cui Giuseppe Gargani, Angelo Sanza e Marco Follini. Grazie dunque a questo lavoro di Signorile e Colarizi, l’interesse verso il caso Moro, finora circoscritto essenzialmente ai giorni del rapimento, si apre al contesto italiano e internazionale, anche nei suoi riflessi sui due grandi blocchi contrapposti nella guerra fredda, sui fatti e le scelte dei partiti, dei Servizi segreti, della Curia, senza mai considerare come inevitabile il tragico esito finale che ha segnato una vera e propria rottura nel sistema politico di allora, fino a polverizzare le prospettive di un compromesso storico, potenzialmente in grado di influire anche sulle dinamiche internazionali. Nulla, dopo Moro, sarebbe stato come prima.

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