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Il libro

«La morte di Moro comincia molto prima di quel 9 maggio»

Pubblichiamo uno stralcio dell’opera scritta da Signorile e Colarizi

Aldo Moro

Aldo Moro

«Moro comincia a morire molto tempo prima quando, dopo trent’anni di ininterrotta egemonia, la Dc e il suo ruolo guida del sistema politico vengono messi in discussione dai risultati delle elezioni amministrative del 1975 che riportano il partito cattolico alla stessa percentuale ottenuta nel 1946 alle votazioni per l’Assemblea costituente, 35,21%. In apparenza un evento marginale, una perdita di tre punti percentuali rispetto ai risultati ottenuti in precedenti consultazioni.

Ma se si allarga lo sguardo allo straordinario successo del più grande partito di opposizione, il Pci, che sale a più del 33% – solo due punti percentuali in meno della Dc – si ha la misura di quale terremoto sia in atto nel quadro politico italiano. Del resto, il declino nei consensi ai cattolici era in larga misura iscritto nei processi di secolarizzazione che per tutti gli anni Sessanta e oltre avevano profondamente cambiato la società italiana, liberandola dai pesanti lasciti del fascismo e dallo stretto controllo della Chiesa cattolica. L’omologazione dell’Italia ai valori, agli stili di vita, ai modi di produzione dei suoi partner europei nella Cee, mostrava i limiti di un sistema fondato sui partiti, adesso in affanno di fronte a queste trasformazioni che avrebbero richiesto un rinnovamento complessivo dei loro modelli e del sistema politico. Nel gruppo dirigente democristiano, Moro era stato uno dei pochi a rendersi conto fin dal 1968, nel pieno della contestazione studentesca, di quanto fosse urgente il rinnovamento della Dc e del sistema politico. La prima vera scossa era arrivata nel 1974, ed era stata solo un preludio al disastro nelle elezioni dell’anno successivo.

Perché la vittoria dei No al referendum sulla legge del divorzio non solo era la controprova di quanto fosse cambiata la società, ma aveva prefigurato anche una convergenza inedita tra forze politiche – laici, socialisti, comunisti – che disegnava una maggioranza alternativa (solo sulla carta, naturalmente). Quella stessa maggioranza, però, che nelle più grandi città d’Italia eleggeva i sindaci e le “giunte rosse” nel 1975, inaugurando una nuova stagione politica che sarebbe costata la vita a Moro». Così il prof. Claudio Signorile in “Il caso Moro tra politica e storia”, il dialogo a due voci con Simona Colarizi, in libreria nella collana gli Scarabei di Baldini+Castoldi. Colarizi evidenzia come «Dal dicembre 1969 con l’attentato di piazza Fontana a Milano, si inaugurava la terribile stagione dello stragismo, destinata come quella del terrorismo rosso a durare ben oltre l’assassinio di Moro. Quanto la bomba alla Banca dell’Agricoltura abbia costituito un alibi alla nascita delle Br, è una tesi con la quale i brigatisti pentiti hanno sempre cercato di giustifi care le loro azioni criminali.

In realtà il discorso, assai più complesso, va riportato anche allo sbandamento delle giovani generazioni, frutto di un processo di trasformazione sociale, economica e culturale così accelerato da cancellare nel giro di un solo decennio le certezze dei padri. (...) A posteriori, in molti hanno finito coll’attribuire tutta la responsabilità di questa tragica stagione di sangue alla contestazione sessantottina nella quale il seme della violenza aveva messo radici; tuttavia il discorso ci porterebbe lontano, anche se va detto che all’interno dei gruppuscoli della sinistra extra parlamentare si erano annidati alcuni dei militanti dei primi gruppi armati e numerosi fi ancheggiatori delle Br che avevano un legame diretto e indiretto anche con i rapitori di Aldo Moro. Così come a fare da manovalanza agli strateghi della tensione erano molti giovani neofascisti, provenienti dalle file del Fuan, il Fronte universitario di azione nazionale». In questo dialogo a due voci è ancora Signorile a ricordare come «non si può parlare del «fattore K», come lo aveva definito il giornalista Alberto Ronchey, quasi fosse un’improvvisa scoperta dopo il balzo in avanti del Pci alle elezioni amministrative del 1975.

La «questione comunista» risaliva al 1945 quando già il Partito comunista era una realtà operante e condizionante l’intera vita del Paese. La storia di questo mezzo secolo repubblicano è stata tessuta con il filo rosso di un consenso crescente, diffuso e coltivato dal Pci in tutto il Paese, in forme e luoghi diversi: regioni, province, comuni, enti locali, sindacati, terzo settore, università, scuola e nell’intera organizzazione della cultura e nei media. Dopo la Seconda guerra mondiale i custodi degli equilibri sanciti a Yalta avevano rivolto gran parte della loro attenzione ai partiti comunisti del Sud europeo che affacciavano nel Mediterraneo, tutti territori che erano snodi strategici irrinunciabili per le nazioni dell’Alleanza atlantica (...) Dopo il conflitto e la divisione dell’Europa, nei paesi dell’Occidente il pericolo comunista era stato gestito politicamente, come era avvenuto nella Repubblica federale tedesca con la messa fuori legge del Kpd (Kommunistische Partei Deutschlands). In Italia non era andata così. Il Pci ancora inferiore (di poco) al numero di voti riscossi dai socialisti alle elezioni per la Costituente nel ’46, già nel 1948, con più del 20% dei suffragi, non poteva essere soppresso per legge. Al di là dei rischi per la tenuta dell’ordine pubblico di scatenare moti insurrezionali, che avrebbero potuto innescare anche un coinvolgimento degli Stati Uniti diretto o indiretto, si sarebbe aperta una contraddizione con i valori costituzionali sui quali era stata fondata la democrazia italiana, appena nata dopo i lunghi anni della dittatura fascista, e le conseguenze sarebbero state destabilizzanti per le istituzioni repubblicane.

Era stata premiata la scelta di Togliatti che, rispetto ai leader degli altri partiti comunisti occidentali, aveva puntato su un Pci nazional-popolare, rinunciando a qualsiasi forma di lotta eversiva. Il risultato però era stato quello di costringere a un complesso lavoro di intelligence i servizi inglesi, americani, tedeschi e italiani, per individuare e impedire una crescita del potere comunista, pericoloso per la Nato ma anche per l’Unione Sovietica, sempre timorosa che Togliatti e i suoi successori, sentendosi via via più forti, allentassero o addirittura tagliassero il cordone ombelicale con Mosca. Da qui la speculare mobilitazione del Kgb, anche lui presente in Italia con le sue spie ben addestrate».

(Claudio Signorile, Simona Colarizi, “Il caso Moro Tra politica e storia”, Baldini+Castoldi, in libreria dal 7 maggio)

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