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La storia

Perché bisogna difendere i giornali

Dieci anni fa la chiusura del “Corriere del Giorno”. L’ultimo numero il 31 marzo 2014

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Sono passati dieci anni. L’ultimo numero del “Corriere del giorno” usciva il 31 marzo 2014 e, sebbene non sia certo una ricorrenza, una delle date storiche da almanacco degli avvenimenti, forse andava ricordata. Da me, che fui uno degli ultimi a lasciare la redazione, sebbene virtualmente in prepensionamento già da sei mesi, da tutti coloro che lo amarono e vi collaborarono. E non sono pochi.

Un elenco di quegli illustri collaboratori sarebbe inutile perché quasi tutti gli uomini e le donne di cultura, i ricercatori di storia, gli scrittori e autori di una qualche esperienza, ma anche giovani che si affacciavano al mondo della pubblicistica, vi collaborarono. Non voglio fare retorica anche perché non è mai stato il mio forte. Del resto quella redazione mi ha dato molte soddisfazioni ma anche delle sofferenze, come del resto ogni esperienza, lunga o breve che sia, porta a ogni uomo. Tonino Argento, uno dei tarantini indimenticabili che furono vicini al “Corriere”, diceva che l’esperienza è la somma delle fregature che un uomo accumula nella sua vita. Beh! Non diceva proprio fregature ma.., possiamo sostituire il termine con altro più forbito. Nei suoi quasi 70 anni di vita, non sempre liscia, ma caratterizzata da almeno tre importanti “chiusure” dalle quali si era sempre ripreso, il “Corriere” era stato un punto di riferimento.

Di quelle chiusure voglio ricordare in particolare l’ultima, quella del 1985, dalla quale il giornale si era ripreso, dopo poche settimane di chiusura, nel pieno di un caldissimo luglio, grazie alla solidarietà della città, che aveva raccolto in pochi giorni la cospicua somma di 150 milioni di lire. Grazie a quelle donazioni e alla vicinanza di tanti amici, si era riusciti a rimettere in moto un’azienda che, al momento della chiusura, aveva circa 70 dipendenti, in maggior parte poligrafici, ossia: amministrativi, impiegati, correttori, tipografi, tecnici. Per poter ripartire fu scelta la forma cooperativistica che consentiva, grazie alla di Francesco Nevoli* legge per l’editoria, di poter fruire di una tassazione agevolata oltre che dei contributi statali. Non voglio neppure toccare il tasto dell’inadeguatezza della politica italiana, che tagliò in modo assurdo i fondi per l’editoria: per tagliare le gambe a tante false testate che erano nate sulla spinta di riforme clientelari, che avevano favorito la proliferazione indiscriminata di fogli persino ciclostilati, si decretò la fine di giornali veri, come il nostro, che volgevano una funzione importante per la comunità.

Gli anni della grande crisi, che avevano portato al governo Monti, il grande “tagliatore”, furono quelli decisivi per la chiusura di decine di testate in tutta Italia. Oggi, con l’impero delle nuove tecnologia, difficilmente una struttura giornalistica come quella del “Corriere” sarebbe riuscita a rimanere in piedi, viste le difficoltà che tutta la stampa italiana attraversa. E visto il ruolo sempre più marginale che l’informazione critica riesce a mantenere. Ma importante è difendere la memoria e i valori cui quella memoria è ancora salda, anche se non lo sarà ancora per molto. Le giovani generazioni neppure lo sanno cosa sia un quotidiano. La maggior parte dei nostri giovani ma anche giovani adulti, non ne hanno mai letto uno. Non sanno com’è fatto, non conoscono le sue componenti, la sua struttura, la sua scrittura. In genere persino coloro che studiano scienze della comunicazione non lo leggono, ma sono solo proiettati verso i nuovi media e imparano, secondo le nuove tecniche di indottrinamento, che ogni giornalista deve trasformarsi un un’azienda. Cosa plausibile ma non generalizzabile.

Diffidate da coloro che insegnano che un giornale è un prodotto come un altro e che come prodotto bisogna venderlo. No. Il giornale è un prodotto a sé: ha un cuore, un sentimento e una strada per comunicare cuore e sentimento, ma ha soprattutto una testa, non sempre pensante, perché in molti casi c’è che ti obbliga a non usare la tua testa ma una sua. Questo è quello che rimpiango della cooperativa: l’assenza del pensiero unico, la diversità dei contenuti e della forma. Non ripiango invece la povertà dei mezzi, la necessità di pararsi sempre dall’arroganza dei potenti che, se scontenti, minacciavano di far male. E a volte lo facevano. Ecco cosa ho imparato: che l’informazione è un bene preziosissimo, inimitabile, sempre più raro. Se i giornali si vendono possono fare gli interessi dei loro finanziatori, che sono i propri lettori. Se si vendono poco devono fare gli interessi dei loro finanziatori, che però non sono più i loro lettori, ma altri i cui interessi non sempre coincidono con quelli del pubblico. Ecco perché bisogna difendere i giornali e ringrazio per questo coloro che mi danno ancora la possibilità di leggerli e... di scriverli.

Silvano Trevisani

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