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Il caso
01 Febbraio 2024 - 07:08
La sede dell'Archivio di Stato a Taranto
Qualche amico mi ha invitato a far sentire la mia voce, unendola al coro di protesta e di invocazione a una soluzione immediata per scongiurare il rischio di chiusura dell’Archivio di Stato di Taranto, ormai ridotto a cinque unità, su quindici previste in organico, se i numeri che mi hanno passato sono esatti. Non sono intervenuto prima, pur conoscendo il problema, perché l’ho rite-nuto inutile, non perché impossibile da risolvere, né perché il nostro Archivio sia vittima di un destino crudele che lo condanna alla chiusura. Il problema si risolve con una seria riforma del settore e cospicui stanziamenti di bilancio, soluzione attualmente impraticabile.
Quindi, bisogna adottare la soluzione dei pannicelli caldi, la preferita nelle problematiche italiane. C’è innanzitutto un problema di informazione da risolvere, c’è da spiegare alla gente comune perché la chiusura dell’Archivio di Stato costituisce un danno per la città. Bisogna spiegare che la storia si scrive soprattutto sull’analisi e l’interpretazione dei documenti, e i documenti sono custoditi nell’Archivio di Stato, oltre che in altri archivi ovviamente. Senza la Storia resta oscura l’identità di una comunità, non si capiscono le origini delle dinamiche sociali del territorio. Nel mio segmento operativo, ritagliato nel periodo temporale del Risorgimento italiano, mi sono assunto l’onere, insieme ad altri studiosi, di studiare e divulgare alla cittadinanza la storia che ci appartiene come comunità sia in ambito civico che in quello provinciale.
Alla prova della realtà è risultata una fatica improba, in quanto è tutta da costruire una sensibilità culturale per le proprie radici identitarie, ma necessaria perché siamo persuasi che senza la risposta alla domanda “da dove veniamo” non possiamo capire il presente e non possiamo lucidamente progettare il futuro. Leggendo alcune proteste, vorrei innanzitutto sgombrare il campo da un equivoco: non c’è nessuno “scippo” dell’Archivio. La situazione odierna è figlia di decenni di politica di scarso interesse verso questo fondamentale giacimento culturale. Si parte dal trasferimento di competenza dal ministero dell’Interno, da sempre ben dotato di risorse economiche, al neonato ministero della Cultura, da sempre lesinato nelle stesse risorse. In altri termini, già da allora giravano meno soldi, ma non si riducevano solo le risorse. Dalla fine degli anni Novanta, nel giro di 21 anni, malgrado una maggiore offerta di documentazione, la presenza degli utenti è calata di ben oltre 84mila unità. Le spese di gestione sono passate da 38.515.814 euro del 2004 a 11.776.684 del 2018 - oltre due terzi in meno - e il personale in servizio è passato da 2.807 del 2004 a 2.216 del 2018. Si è scelto così di far morire consapevolmente per lenta asfissia questo settore, con una riduzione dei servizi e sicurezza del personale e degli utenti.
Come possono funzionare gli Archivi di Stato con meno di un terzo di funzionari archivisti rispetto a quelli previsti dalla pianta organica? A ciò si aggiungano le politiche che si sono succedute, che hanno privilegiato altri settori di competenza del dicastero cultura, nonché le politiche di austerità verso l’intero comparto del pubblico impiego, che hanno messo in crisi settori nevral gici della vita sociale, come forze di polizia e magistratura. Il ritornello è quello di sempre: non ci sono soldi per il personale, bisogna arrangiarsi. E figuriamoci se potevano stare a pensare di rimpinguare gli Archivi di archivisti, sorveglianti e custodi! Un disagio diffuso per tutti, operatori degli Archivi e utenti. Gli operatori devono lavorare di più, con lo stesso stipendio, e gli utenti devono avere pazienza per consultare i documenti non più tutti i giorni, come era possibile qualche tempo fa, ma in alcuni giorni. Deve essere chiaro che tale situazione di disagio non riguarda solo Taranto, dove è esplosa a seguito degli ultimi pensionamenti di qualche giorno fa, ma ha riguardato in tempi recenti l’intero comparto, come ad esempio gli archivi di Firenze, Frosinone, Nuoro, Foggia, Vicenza, Bassano del Grappa, Venezia, Genova, Sulmona, Perugia. Il problema, quindi, non è Taranto, ma la politica nazionale nei confronti degli Archivi di Stato che necessita di una seria riforma con adeguati stanziamenti di bilancio.
Non possiamo fare a meno di considerare che se mancano le risorse economiche per la sanità, bene primario indispensabile per la sopravvivenza, dove ricavare quelle per la cultura (con la quale non si mangia, secondo qualcuno), col debito pubblico che abbiamo e con i vincoli impostici dall’Unione Europea ? Questi, secondo me, sono i termini del problema, cui lo stato ha risposto con la consueta risposta: i pannicelli caldi, come la digitalizzazione dei documenti. Uno strumento utile e importante, beninteso, ma non sufficiente a risolvere il problema perché prevede tempi lunghi per il suo completamento e, anche lì, risorse economiche. E poi, non è la panacea di tutti i mali, non si può digitalizzare tutto e dappertutto. La mia sensazione personale è che si andrà a finire come le Biblioteche civiche, con l’appalto a cooperative private, che risolvono problemi di costi, e di gestione, ma non garantiscono la qualità del servizio offerto. Vedremo. Per la situazione dell’Archivio di Taranto, si è levato il giusto coro di proteste da parte degli studiosi fruitori (anche da chi nell’Archivio di Stato non è mai andato o non lo frequenta da anni), cui si è unito l’apprezzabile intervento del sindaco Melucci, che pur esulando tale materia dalle sue competenze, ha manifestato la sua sensibilità politica intervenendo sul ministero della Cultura perché questo problema colpisce, comunque, gli interessi della cittadinanza.
Non sappiamo se tale intervento sortirà qualche effetto concreto, ovvero se il ministero ci farà la grazia di riprendere il contagocce lasciatogli dal suo predecessore, mandando altre unità di personale per consentire la sopravvivenza della struttura, come ha provveduto in situazioni analoghe di altre realtà italiane. Però non si poteva restare inerti, occorreva e occorre muoversi. In questo movimento il sindaco Melucci non può e non deve essere lasciato solo, ma è indispensabile il concorso dei rappresentanti parlamentari dell’arco ionico (Dario Iaia, Ubaldo Pagano, Giovanni Maiorano, Mario Turco) dei partiti politici, dei sindacati della Funzione Pubblica ai massimi vertici. E’ di fondamentale importanza capire ad ogni livello che gli archivi non sono semplici ed estranei contenitori della memoria, ma strumenti vivi e vitali di democrazia e di cittadinanza partecipata perché contengono la storia della città, e quindi, la sua identità territoriale. Allora, la risposta della città deve essere corale se vuole sperare nell’efficacia, altrimenti la protesta viene soffocata alla sua base. Chi resterà inerte o farà finta di muoversi con sterili interpellanze parlamentari o con facili proclami di “voler bene a Taranto” senza i successivi fatti, dovrà poi dar conto alla città. E la memoria dei tarantini, ovviamente non quelli che si vendono un tanto a voto, per quanto corta possa essere, non si perde fino a giugno.
Francesco Guida
Direttore del Comitato di Taranto Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano
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