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Il racconto
05 Giugno 2023 - 14:17
Il pronto soccorso dell’ospedale Ss. Annunziata - archivio
Il Pronto Soccorso di Taranto è un treno lanciato ad altissima velocità su un binario morto. Dopo la pandemia saremmo stati tutti migliori, si fantasticava nei giorni neri dell’emergenza. Autoconsolazione scambiata a buon mercato. Sabato 27 maggio abbiamo personalmente visitato i gironi (ristrutturati, ma pur sempre gironi) del Pronto Soccorso (PS) dell’ospedale SS. Annunziata e abbiamo visto con i nostri occhi (benché non ne avessimo bisogno) quanto profonda sia la crisi della sanità pubblica, quale faccia abbia il reale, in un giorno di ordinaria emergenza. Alle 18 circa, siamo arrivati in ambulanza all’ingresso del PS, con un codice giallo in dote.
Tutto è cominciato con un’iniezione intramuscolare di un noto farmaco miorilassante, di quelli che abbiamo generalmente nell’armadietto di casa. Una manciata di secondi dopo l’estrazione dell’ago, ci siamo ritrovati faccia a faccia con il pavimento, privi di coscienza. Diversi i tentativi di rianimazione, inizialmente tutti falliti. Poi di nuovo la luce; faceva quasi male. Perdita di coscienza, dunque, e conseguenze che si possono immaginare. Riprendere la posizione eretta non è stato semplice, c’è voluto l’intervento del 118. Solerte, siamo stati fortunati. C’era un’ambulanza sulla strada per Taranto, di ritorno dall’ospedale di Martina Franca. Operatori cordialissimi e sensibili, li ringrazieremo sempre per la loro professionalità e umanità. Angelo e Giusy però nulla possono contro la burocrazia e la carenza di mezzi e personale del SS. Annunziata. Siamo costretti a restare in ambulanza (nuovissima, si sente ancora l’odore del mezzo appena uscito di fabbrica), senza acqua da bere, a stomaco vuoto (l’incidente impone l’astinenza), per circa quattro ore. Nel frattempo, arrivano una marea di codici rossi e il nostro giallo arretra, giustamente, nella coda per l’incontro con i medici. L’incontro con i medici è qualcosa di soprannaturale, al Pronto Soccorso del SS. Annunziata. Tu sai che ci sono, dall’altra parte della porta scorrevole elettronica che lascia sciamare gli infermieri e gli OSS, in un andirivieni che sembra non rispondere a razionalità. Ma le ragioni ci sono, eccome.
È strano però non leggere fretta nei loro gesti; precisione più che altro. Precisione chirurgica anche nell’abbozzare un mezzo sorriso, ma solo ai più ‘fortunati’. Uno strumento tecnico, anche il sorriso. Di qua, c’è l’insostenibile leggerezza del dolore: i pazienti in attesa (chi ha sfiorato l’overdose per un pelo, persone con tumori all’ultimo stadio, pazienti con disturbi neurologici, con vomito ciclico, pazienti anziani che arrivano perché, soli in casa, sono stati colti da un attacco d’ansia, giovani e meno giovani vittime di incidenti, persone con altri motivi per essere dove non avrebbero mai voluto essere, come un ragazzo le cui urla di dolore raggiungono il cielo di Aristotele, mentre i sanitari provano a sistemargli le ossa). Al di là della porta elettronica efficientissima ci sono due soli medici, non medici soli, poiché sono attorniati da una nutrita squadra di infermieri, OSS, barellieri, operatori nerboruti che sollevano, premono, spostano, asciugano, fanno di tutto. L’attesa nel limbo dell’ambulanza finisce quando comincia l’attesa nel ‘primo stallo’ del PS: la sala in cui sei un paziente tra gli altri, che bramano di vedere un medico. Sai che l’attesa sarà lunga e perciò provi ad armarti di pazienza, cerchi persino di dare una mano, perché ci sono persone che soffrono molto, ma molto più di te. Anche tu però sei lì perché evidentemente hai bisogno di assistenza medica. Sei svenuto, hai perso conoscenza per diversi minuti, picchiando la testa e le ossa sul pavimento bianco di casa.
Come vorresti tornare a casa…E qualcuna delle persone in attesa vaglia la possibilità e chiede all’infermiere, il primo che risponde alla richiesta (quasi sempre con un pizzico di apparente indolenza), in che modo sia possibile farlo. Tornare a casa. “Un taxi, signora” - è la risposta. “Ma io non posso camminare - esclama sbigottita un’altra paziente - sono stata operata per un sarcoma, ho la gamba a pezzi e perdo sangue e altri fluidi dalla ferita. Come posso tornare a casa in automobile con mia figlia?!”. La risposta è un mugugno; si intercettano, nei suoni, le brevi parole: ora…un…attimo. Di fronte a quella che è una vera e propria voragine di carne, vasi e nervi. Sempre mugugni, più che risposte alle richieste legittime dei pazienti. I suoni sono quelli emessi da personale stanco e sotto pressione, con il volto allo schermo di un computer (per compilare form e tabelle varie) e ‘un attimo’ (la risposta puntuale a qualsiasi paziente) masticato come un chewin-gum. Non è mai un attimo. Nel clima di rassegnazione generale dei pazienti, di dolore e di confusione, attendiamo anche noi e, a un certo punto, ci affiancano (sempre in lettiga) un ragazzo neanche maggiorenne, con il viso innocente e l’aria molto più che sofferente. Assente. La testa bionda gli penzola disegnando semicerchi invisibili sotto al mento, lo sguardo è acquoso, perso, le pupille quasi si incrociano. La tenerezza è inevitabile. Quasi in silenzio domandiamo il suo nome. Luigi ha sniffato cocaina e fumato erba o roba sintetica (non è la stessa cosa), ha bevuto neanche sa quanto e si è accasciato sulla carrozzeria di un’auto, prima di arrivare qui.
Gli assicuriamo che starà meglio, si prenderanno cura di lui; in effetti appena arrivato nel ‘primo stallo’, quello dell’attesa senza fine, sono stati tutti molto premurosi con lui, anche la Polizia. E meno male. Lui, ragazzo autistico, si droga perché è solo, ci spiega con un filo di voce. L’attesa prosegue e gli infermieri continuano a muoversi parecchio (arrivano altri codici, altre sofferenze), fanno su e giù tra le due sale, così anche gli OSS e gli operatori vari. Forniscono sedie a rotelle per passaggi in bagno, cambiano pannoloni, spostano da una lettiga all’altra, parlano parecchio tra loro. Parlano anche di cose private, cenni, tra un intervento e l’altro. A noi hanno fatto un elettrocardiogramma, dopo le famose quattro ore in ambulanza e un prelievo del sangue. E poi? “E poi sarà come impazzire”. Si può impazzire di dolore e pure di attesa, anche se il dolore, in qualche caso, è tollerabile. Per noi diventa piuttosto difficile, con il trascorrere delle ore, assistere a certi scambi verbali. Come un dialogo tra paziente e infermiera, in cui la seconda si offende solo perché la prima ha chiesto di essere trattata come una mamma. Sono le 3 del mattino, quella signora è sulla lettiga dalle 14.30 del giorno prima. È domenica da un pezzo, ma noi non ce ne siamo accorti. L’infermiera risponde: «Mia madre è morta più di dieci anni fa, non tocchi mia madre, non si permetta». Crisi di nervi in piena regola per lei, la paziente balbetta qualcosa, si sente in difetto senza esserlo. Sarà professionale tutto ciò? Certo, l’assenza di un moto di empatia non è esattamente una caratteristica (riscontrata in tanti casi, in tutte quelle ore) desiderabile, in un operatore sanitario. Forse, alcuni di quegli OSS e infermieri dovrebbero fare un altro lavoro. Alla fine, sentiamo pronunciare il nostro cognome. È il nostro grande momento. Stiamo per incontrare un medico. Sono passate più di dodici ore dalla sincope vaso vagale, così viene definito il nostro malore.
Accompagnati da un barelliere, scivoliamo nella sala con i dottori. Sono solo due, appunto. Il nostro è di spalle, quando lo identifichiamo. Lui ha la nostra cartella. Si alza all’improvviso dalla scrivania e domanda con un sorriso largo, quasi inappropriato, cosa sia accaduto. Peccato che sia tutto scritto sulla cartella, peccato siano passate tutte quelle ore, peccato che non abbiamo voglia di ripetere quello che abbiamo già detto a più di un infermiere. Lo facciamo ovviamente, con la speranza di essere ascoltati. Qui c’è tranquillità, neanche sembra un pronto soccorso. Quasi una corsia di un qualsiasi reparto dell’ospedale. Il medico non ci fa una visita neurologica, ci guarda appena (lo stetoscopio è un ricordo dell’infanzia) e ci dice che stiamo bene; le analisi sono a posto. Se lo dice lui che stiamo bene, dobbiamo credergli, nonostante le algie diffuse e il grande stordimento. Lo fermiamo prima che sparisca di nuovo nel monitor del computer. Gli riferiamo che abbiamo dolore alle costole, e vinciamo un fugace esame obiettivo (solo alle costole) e una radiografia al torace. E la testa? Il cranio nasconde un ematoma tra i capelli e rivela un paio di tumefazioni alla tempia sinistra. C’è anche una piccola ma visibilissima escoriazione all’attaccatura dei capelli. Ma no, non c’è bisogno della lastra alla testa.
Non servirebbe, ci vorrebbe una TAC. Ma il dottore prima di congedarci, cioè dimetterci, dice chiaramente che non può prescrivere TAC a tutti, che noi stiamo bene, siamo stati sotto osservazione, e se nelle successive 48 ore dovessimo accusare i sintomi indicati nel foglio delle dimissioni, ci basterebbe tornare immediatamente al Pronto Soccorso. Ve lo immaginate? Tornare e rifare tutto da capo. Come la tela di Penelope. No, grazie. Forse, la prossima volta preferiremo restare sul pavimento di casa. Forse sarebbe stato più giusto poter fare quella tomografia, ma ci saremmo accontentati anche di un approccio più umano. Medici e infermieri lavorano sotto pressione, sicuramente con mezzi insufficienti; sono in numero insufficiente essi stessi (almeno i dottori, mentre curiosamente sembrava di essere al mercato degli infermieri e degli OSS), ma dall’altra parte ci sono i pazienti.
Soffrono e hanno bisogno di assistenza medica, di sostegno psicologico, empatia. Vorrebbero trovarsi altrove, anche solo per non sentirsi dire, per giunta nell’ultima parte della loro vita, che il loro è stato un accesso improprio al PS. Quella signora con il sarcoma sarebbe quindi dovuta restare a casa nel suo stesso sangue, per non essere definita ‘un accesso improprio’, per di più dopo oltre tredici ore di attesa. Forse anche medici e infermieri vorrebbero, come i pazienti, trovarsi altrove. Nessuno chiede di stare male, e a nessuno viene ordinato di fare il medico o l’infermiere. Si sceglie, in quel caso. Il paziente invece non ha scelta; la sanità pubblica è sotto scacco.
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