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Taranto e la felicità: oltre gli stereotipi

Taranto e la felicità: oltre gli stereotipi

Taranto e la felicità: oltre gli stereotipi

Si può parlare di felicità a Taranto? È questa la domanda che si pone grazie al nuovo libro di Tiziana Grassi. Per dieci anni giornalista di Rai International, Tiziana Grassi, tarantina vissuta a lungo a Roma, da alcuni anni è rientrata a Taranto e ha deciso di provare a raccontare una città diversa: quella che non si arrende alla lamentazione e si sbraccia per costruire azioni positive. “Storie di chi investe nella felicità del territorio” è la nuova puntata di questo suo percorso alla scoperta della Taranto che guarda avanti. Un lavoro che induce a delle riflessioni. Felicità a Taranto? L’interrogativo ne presuppone un altro: una Taranto diversa è possibile? Dieci anni dopo l’esplosione delle grandi contraddizioni di uno sviluppo industriale andato fuori controllo, questa è ancora una città lacerata. Andare oltre e costruire - non solo immaginare - un’altra Taranto è diventata una ineludibile necessità. Ma per farlo bisogna uscire dallo stereotipo di una narrazione lugubre, unidirezionale, fondata sul vittimismo e sull’onda emozionale del dolore che pure certe ferite hanno provocato. Non nascondere i guasti come la polvere sotto il tappeto, ma trovare il coraggio di alzare lo sguardo oltre i confini del pietismo e dell’autocommiserazione. Oggi c’è una parte di città rimasta fortemente legata a questo approccio vittimistico e lo è in modo così radicale da sfiorare l’autolesionismo nel produrre una immagine di Taranto costantemente negativa: una visione che rischia di scoraggiare qualsiasi intrapresa di nuove attività, sia che esse provengano da spinte interne al territorio, sia che vengano da investitori esterni. Una trappola psicologica per gli stessi tarantini oppressi dal convincimento di vivere in una realtà distopica impossibile da cambiare. Ma cambiare si può? Sì, se si fanno propri almeno tre concetti. Il primo: la complessità. Viviamo in una società profondamente complessa. Chi propone soluzioni semplicistiche per uscire dal guado (ad esempio ritenere che la chiusura del siderurgico possa rappresentare la soluzione dei problemi) è lontano dal percepire la complessità delle dinamiche sociali ed economiche nelle quali siamo immersi. Proporre soluzioni semplicistiche a fronte di problematiche di elevatissima complessità è semplicemente ingannevole e su questa ingannevolezza sono state costruite anche fortune politiche, come è quasi ovvio quando non alla testa ma alla pancia dei cittadini ci si rivolge. Ma è un gioco da illusionisti che alla lunga si rivela deleterio perché non produce soluzioni ma alimenta solo aspettative. E quando queste restano inevase subentrano frustrazione e sfiducia: un boomerang devastante. Il secondo concetto: il sistema. Taranto ha da tempo smarrito la sua centralità di capoluogo, ha perso questo ruolo quando già sul finire degli anni Ottanta si è esaurita la spinta espansiva innescata dall’industrializzazione degli anni Sessanta. Ma se oggi Taranto ha difficoltà ad essere percepita come capoluogo dagli altri comuni della provincia è anche perché la città negli anni si è via via chiusa in un gretto localismo. Una delle argomentazioni utilizzate da chi propugna la chiusura dell’ex Ilva è quella della composizione geografica della forza lavoro impegnata nello stabilimento: pochi tarantini, molti forestieri. Ecco: è proprio questo tipo di ragionamento che non consente a Taranto di riappropriarsi del suo ruolo di capofila di uno sviluppo complessivo del territorio provinciale. Da Laterza ad Avetrana, Taranto ha un patrimonio immenso da poter offrire nella costruzione di una nuova fase di sviluppo. Costringersi in una miope ed egoistica visione allarga il solco, la frattura, tra la città e gli altri comuni della provincia. Realtà come Bari e Lecce traggono la loro forza proprio dalla forte identificazione che esiste tra capoluogo e provincia. A Taranto questo non accade e non solo perché il capoluogo, avvolto nella sua crisi esistenziale, ha perso il suo appeal, ma anche perché negli anni non ha saputo dialogare e relazionarsi con gli altri comuni del suo stesso territorio. Di più: ha negato la sua stessa storia. Dire, come è stato detto da autorità istituzionali, che il Novecento per Taranto è stato un «deserto culturale» è negare l’esistenza stessa della città, nata e cresciuta, dal Borgo in poi, proprio in quel Novecento oggi disprezzato da quanti pensano di poter scrivere una nuova pagina di storia strappando le pagine precedenti. È negare quella Taranto che, grazie all’industrializzazione, riuscì ad invertire i flussi migratori: da Taranto non si partiva, a Taranto si arrivava. Da tutto il Mezzogiorno e persino dal Nord. È negare quella Taranto trasformata in uno straordinario laboratorio sociale grazie alla confluenza di culture e passioni diverse, portate in dote dalle migliaia di famiglie provenienti da altre province e regioni che guardavano Taranto come ad un nuovo e agognato centro di lavoro e di benessere. Certo, è stato uno sviluppo che ha prodotto distorsioni. Ma proprio dalla storia bisogna ripartire con la consapevolezza (il terzo concetto) delle proprie risorse che possono essere liberate per disegnare nuove dinamiche di sviluppo. È con questo lavoro di ricucitura tra presente, passato e futuro che si può ricostruire quello spirito di comunità che le lacerazioni di questi anni hanno purtroppo compromesso. E se si ritrova questo spirito, allora anche tornare alla felicità può essere possibile. Enzo Ferrari Direttore responsabile
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