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24 Marzo 2019 - 05:50
“L’acciaio in fumo - L’Ilva di Taranto dal 1945 ad oggi” è il libro di Salvatore Romeo uscito per Donzelli. Si tratta di un lavoro documentatissimo e accurato che «analizza le aspettative e le delusioni, i progetti e i conflitti, le trasformazioni che la città e lo stabilimento hanno maturato nel corso del tempo». Con l’autore abbiamo parlato delle vicende del siderurgico tarantino.
Il libro sarà presentato a Taranto venerdì 29 marzo, alle 17:30, al MuDi - Museo Diocesano di Arte Sacra, in vico Seminario I. Con l’autore discuteranno: Francesca Re David, segretaria generale della Fiom Cgil Nazionale, Michele Conversano, direttore del Dipartimento di prevenzione della Asl Taranto, Rosaria Leonardi, ricercatrice della Fondazione Gramsci di Puglia e Istit. pugliese per la storia dell’antifascismo e dell’Italia contemporanea. Con Salvatore Romeo abbiamo parlato delle vicende storiche e attuali dello stabilimento ex Ilva.
Perché l’acciaio in fumo? È svanito il sogno di una città industriale?
È svanito il progetto che c’era dietro. Non solo quello industriale. Parlo del progetto politico che aveva come obiettivo l’unificazione economica del Paese. Con questi interventi si voleva integrare il Mezzogiorno con l’economia nazionale. Un’idea, questa, molto forte in chi si era battuto per quel tipo di progetto. Il tentativo era quello di costruire una società industriale più moderna che superasse le incrostazioni feudali della società. In parte il gap è stato compensato, poi si è tornati indietro.
Perché l’Italsider a Taranto?
Negli anni ’50 Taranto viveva una crisi drammatica. Lo slogan delle classi politiche e sociali tarantine di allora era “Taranto non vuole morire”. Una espressione ripresa anche da Tommaso Fiore. Taranto, dopo la seconda guerra mondiale aveva esaurito la sua funzione storica e si era alla ricerca di una nuova funzione per la città. Quella funzione fu attribuita all’insediamento del centro siderurgico. Ma quando viene insediato il siderurgico, verso Taranto si registra solo un interesse strumentale, da parte del gruppo dirigente c’è un atteggiamento di indifferenza rispetto alla città e all’impatto che la fabbrica ha sul territorio. Poi il tema dell’impattodiventa più centrale, ci si accorge che la fabbrica non produce quegli effetti che ci si aspettava. I sindacati si battono per indurre l’industria ad assumersi responsabilità sociali. Nasce così la “Vertenza Taranto” e una nuova prospettiva per la città negli anni ’70.
Una prospettiva che a lungo è stata vissuta in un rapporto paternalistico tra fabbrica e città, non crede? C’era l’idea della fabbrica che si prendeva cura dei propri dipendenti. Pensiamo, ad esempio, alla nascita del quartiere Paolo VI voluto proprio per dare un alloggio ai lavoratori del siderurgico. Oppure pensiamo alle attività promosse dal Circolo Italsider.
Paternalismo? Sì, ma i rapporti di fabbrica restano quelli tipici di una industria privata. L’azienda fa l’azienda.
Poi arriva la rottura...
Negli anni ’80 l’azienda è costretta a ripensare se stessa: la riorganizzazione del lavoro passa attraverso i prepensionamenti e così ci avviamo al disfacimento del potere operaio. Il movimento operaio negli anni ’70 era una potenza, ma con l’espulsione dal lavoro di migliaia di lavoratori cinquantenni viene tagliata la loro funzione sociale e politica. Molti di loro si reimpiegano nel lavoro nero e questo è un aspetto che va ad incidere negativamente sul mercato del lavoro. Ad essere penalizzati sono soprattutto i giovani, costretti nuovamente ad emigrare per cercare lavoro fuori.
Si parlava poco, in quegli anni, della questione ambientale.
La questione ecologica esplode contestualmente a quella internazionale. Nel 1971 l’amministrazione provinciale di Taranto organizza un convegno con Giorgio Nebbia sull’inquinamento atmosferico e marino. Ne esce un quadro problematico. Ma non ci sono strutture di monitoraggio e le leggi sono deboli. Pensiamo che il Presidio Multizonale di Prevenzione viene istituito solo nel 1979. Nel 1990 arriva però la dichiarazione di area di crisi ambientale, l’allora Usl avvia indagini sulle cokerie e sulle malattie tumorali al rione Tamburi, fino ad arrivare agli anni 2000 quando si accende lo scontro proprio sulle cokerie.
Uno scontro che oggi non si riesce ancora a superare, viste le tensioni esplose di nuovo in queste settimane.
Taranto continua ad essere un polo fondamentale per la siderurgia e questo è un problema, perché o si riesce a risolvere adeguatamente la questione ambientale oppure si soffoca. A Duisburg ci sono riusciti a risolvere il problema ambientale, la Cina sta rimodernando stabilimenti enormi. Sono cose normali, se vogliamo. Piuttosto dobbiamo chiederci perché così non è stato da noi.
Forse c’è stato un grave ritardo della poltica nell’intervenire prima che la crisi diventasse acuta.
I governi nazionali non sono stati in grado di gestire questa partita. Se negli anni ’90 si fosse intervenuto con efficacia probabilmente oggi non vivremmo questa crisi così acuta. L’Aia è stata approvata per la prima volta solo nel 2011, per una ragione politica e non certo per colpa del destino.
Con l’avvento dei Riva si è prodotta forse una frattura insanabile tra fabbrica e città.
I Riva creano una fabbrica a loro immagine. Si opera una sostituzione della classe operaia, c’è la vicenda della Palazzina Laf. La comunità aziendale è chiusa e si produce un forte contrasto tra città e fabbrica.
E questo è il momento in cui si fa più forte il movimento ambientalista.
Il movimento ambientalista si presenta come movimento di massa, svolge un ruolo importante di sollecitazione sulla questione ambientale e fino al 2011 riesce a sviluppare una dialettica intensa con il Comune e con la Regione. Poi arriva la sconfitta, con l’approvazione di un’Aia non soddisfacente. Questa sconfitta viene elaborata in maniera drammatica dal movimento con una forte radicalizzazione e politicizzazione. Da quel momento il movimento ambientalista assume caratteristiche diverse. Il limite è quello di ritenersi portatori di una idea di città univoca. Quando si afferma “Noi siamo la città” c’è il rischio che chi abbia un’idea differente, anche all’interno dello stesso movimento, possa essere considerato nemico della città. Altamarea aveva una connotazione profondamente diversa, inclusiva. Con la fine di Altamarea si accentua la frammentazione con conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti.
Enzo Ferrari
Direttore responsabile
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