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I bambini dell’orfanotrofio di Cebu

L’orfanotrofio di Cebu, nelle Filippine – foto di Anna Raisa Favale

L’orfanotrofio di Cebu, nelle Filippine – foto di Anna Raisa Favale

Prosegue il diario di viaggio di una giovane tarantina all’estero. Oggi un’altra testimonianza dalle Filippine. Per Natale sono venuta a Cebu, una delle isole più grandi delle Filippine, con una fraternità religiosa già conosciuta negli Stati Uniti. Sono stata in missione con loro in una zona povera del Messico circa 3 mesi, qualche tempo fa, e sono venuta a trovarli qui per questi giorni di festa e di comunità. L’altro giorno siamo andati a visitare i bimbi di un orfanotrofio in città, per stare un po’ di tempo insieme e portare dei regali per Natale. Arrivando lì, ho scoperto che il fondatore dell’ordine a capo della struttura è in realtà un italiano. Si chiama Gerolamo Emiliani, ed è un santo laico della Chiesa Cattolica. Vissuto tra il 1400 e il 1500 a Venezia, in un momento storico di guerra e pestilenze continue, iniziò a prendersi cura degli orfani che trovava in strada, per poi negli anni dare vita a una vera e propria fondazione, chiamata dei “Padri Somaschi”, dal luogo, Somasca, dove lui morì. L’opera si basava fondamentalmente su due pilastri: dare ai bimbi una casa, da una parte, e un’educazione dall’altra. Gerolamo all’epoca si connesse con artigiani e maestri che potessero insegnare un mestiere ai ragazzi per renderli indipendenti. Lo stesso carisma, più di 500 anni dopo e dall’altra parte dell’Oceano, è arrivato fin qui, nelle Filippine, e questo orfanotrofio oggi conta 28 ragazzi e bambini a cui si dà una casa e un’istruzione. E’ sempre incredibile per me pensare a come il desiderio e il lavoro di una persona così lontana nel tempo e nello spazio, possa avere avuto eco così distanti, senza che ci abbia mai neanche messo piede egli stesso. Non credo Gerolamo avesse mai immaginato che il suo “sogno” sarebbe arrivato fino a qui. Ed è in un certo modo anche un “orgoglio molto italiano”, ritrovarsi in una terra così lontana per geografia, cultura e storia, eppure sentirsi circondati da così tanti riferimenti, tutti portati dal Cattolicesimo, del nostro paese. Ogni tanto, gli amici, quando mi presentano ad altri, dicono: “E questa è Anna Raisa, dalla Terra Promessa, l’Italia”. Ci pensiamo mai, che oltre al paese di grandi artisti, scrittori, scienziati, cuochi e calciatori, siamo anche il paese dei grandi santi? Insieme alla Francia siamo quelli che ne hanno dato i natali ai più, ma forse in italia c’è stata ancora più creatività, in un qualche modo, nei carismi e nelle diversità, storie tutte varie e uniche: come siamo noi, un popoli di creativi, in fondo, qualsiasi cosa ci mettiamo a fare. E’ così anche qui, senza saperlo, ho trovato un po’ d’Italia. Il sacerdote mi ha accolto infatti parlandomi in un italiano semplice, avendo trascorso degli anni di formazione nel nostro paese. Andare negli orfanotrofi è sempre un misto di emozioni contrastanti. C’è sempre grande gioia – che viene dai sorrisi dei bambini, dalla loro energia, dal vederli felici con pochissimo – e poi un grande dolore, che viene dal conoscere le loro storie. Non tutti quei 28 ragazzi sono tecnicamente orfani. Alcuni di loro hanno delle famiglie, o almeno pezzi di famiglia - una madre, o un nonno - ma sono lì perché in quei casi le famiglie non hanno i mezzi per crescerli: non c’è abbastanza cibo, non si può farli studiare, o semplicemente non si riesce a offrire un clima di serenità. Sono spesso famiglie disfunzionali dove i bimbi, ancora piccolissimi, hanno subito vari traumi. Per queste feste di Natale, chi di loro ha un pezzo di famiglia, dovrebbe andare a trascorrere qualche giorno con loro. Ma il sacerdote mi raccontava che nessuno di loro vorrebbe andare: si sentono molto più protetti all’orfanotrofio. E’ un pugno nello stomaco ascoltare queste storie. Così piccoli, e già così provati dalla vita. Abbiamo giocato con loro e alla fine abbiamo distribuito alcuni doni – un pallone, delle ciabatte nuove, materiale da cancelleria, cose semplici… ma la festa è stata grande, perché come per tutti i poveri, per questi bambini niente è scontato. Mi ha ricordato di una vigilia di Natale trascorsa in macchina a Taranto tra la stazione e alcune strade provinciali, per andare a cercare i barboni e augurare Buon Natale anche a loro. Avevamo preparato degli scatoloni pieni di giacche, maglioni, scarpe. Ma anche cibo, pandori, salumi, tutti impacchettati con nastri rossi e carte dorate. Non c’è cosa peggiore del trascorrere Natale da soli. Nessuno dovrebbe, eppure c’è gente, e anche bambini piccolissimi, che lo fanno da anni, per anni. Per non parlare degli ultimi anni col Covid di mezzo, che ha complicato tutto anche e specialmente per loro. Di associazioni e gruppi che aiutano ce ne sono tantissimi, locali e non. Quest’anno, magari, con un po’ di restrizioni in meno, se ve la sentite, provate ad informarvi e a unirvi, per qualche ora anche solamente, se vi va. Sono giorni fatti per la condivisione. Che sia Natale o Capodanno, Santo Stefano o l’Epifania. E’ la stagione del dono.  
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