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28 Ottobre 2018 - 06:00
«Ho iniziato ad entrare in carcere nel 1976. Avevo 16 anni». Lo ascoltano in collegamento da un sito riservato. Gianfranco Modeo, oggi libero cittadino, non si tira indietro. Rievoca la saga criminale della sua famiglia, il clan che per anni ha terrorizzato Taranto e lasciato dietro di sé una lugubre scia di sangue. Davanti alle domande del pubblico ministero Giuseppe Lombardo riannoda i fili della memoria e racconta dei collegamenti del clan con le famiglie calabresi e siciliane, delle strategie mafiose per creare disordine in Italia, dei tentativi di aggiustare i processi e dei contatti con Licio Gelli, degli attentati che si volevano preparare ai danni dei magistrati che indagavano su agenzie finanziarie e traffici di droga.
Pagine di storia nera che vengono sfogliate nel processo sulla ‘ndrangheta stragista in corso a Reggio Calabria. Ma prima di tutto viene la sua storia, quella di un ragazzino subito iniziato alla malavita e che brucia la sua adolescenza dietre le sbarre di una cella. «Ho cominciato che avevo 15 anni. Venivo da una famiglia che faceva questo tipo di vita e, di riflesso, sono entrato a farne parte. Il mio primo reato è stato un reato di sangue, poi si cresceva». La sfilza di reati accumulati nella sua carriera criminale è impressionante: «In carcere ci sono entrato per omicidio, associazione, spaccio, traffico d’armi, contrabbando, bische clandestine, di tutto». Un continuo andirivieni da una cella, qualche breve pausa di libertà e poi di nuovo dentro, in giro per le carceri italiane. A conoscere e a imparare dai boss. «Nel carcere di Bari conobbi Umberto Bellocco. Lui era già un capofamiglia, io ero ancora un ragazzetto. Con i Bellocco c’era legame di sangue, c’era comparanza».
Ma il clan Modeo era già una solida struttura criminale: «Riuscimmo a creare un nostro gruppo nei primi anni ‘80, quando riuscimmo ad avere una ‘ndrina distaccata. A capo c’era mio fratello Riccardo, un gradino sotto c’ero io e poi c’era l’altro mio fratello, Claudio. Eravamo collegati con gente della Calabria, della Sicilia. Dove c’era un corpo di società formata riuscivamo ad entrare. Avevamo competenza su Taranto e provincia e rapporti con la famiglia Bellocco di Rosarno, con i Morabito di Africo Nuovo. A Milano con la famiglia Fidanzati. Riccardo ebbe modo di favorire la famiglia Pullarà, che era collegata ai Corleonesi. Eravamo una famiglia riconosciuta a livello nazionale». Una trama fitta di intrecci e relazioni pericolose, fino al pentimento, nel ‘93. La conversione da mafioso a collaboratore di giustizia: «Tirarono dentro mia moglie. E allora dissi che non avrei mai dato mia moglie e mia figlia all’organizzazione. Così decisi di collaborare. Tutto quello che ho fatto l’ho pagato».
Il pm Lombardo insiste sui contatti con i calabresi e i siciliani. Man mano, Gianfranco Modeo svela le trame apprese grazie alle amicizie coltivate in carcere: «Da Novara arrivò un’ambasciata a Bellocco. Gli avevano scritto che era ora di reagire contro il regime di carcere duro. Si dovevano fare attentati in Italia. Era stato chiesto a tutti i gruppi di fare questi lavori ognuno nei propri territori per creare scompiglio. L’iniziativa arrivava da gente di Catania. Ma la strategia non fu attuata perché i palermitani posero il veto». La strategia stragista riprese vigore anni più tardi: Capaci e via D’Amelio. E si voleva alzare ancora il tiro. È a questo punto che entra in scena un controverso personaggio: Aldo Anghessa.
«Mio fratello Claudio lo aveva conosciuto in carcere nel ‘91, a Bari. Anghessa diceva che c’era un piano per distruggere le vecchie famiglie malavitose, che si volevano distruggere i vecchi partiti. E si dovevano preparare attentati. Dissi a Claudio di stare alla larga. Mio fratello era spaventato perché quello sapeva tutto di tutti».
La ricostruzione di quel piano carico di terrore è inquietante: «I palermitani avevano accettato questa proposta, fatta da Licio Gelli che era stato direttamente a Palermo». Un nome, quello del Venerabile della Loggia P2, che poi entrerà direttamente nel destino dei Modeo per la presunta intercessione presso Giulio Andreotti allo scopo di «buttare giù» il processo per l’omidicio Marotta. È la storia, ormai arcinota, della fantomatica telefonata tra Gelli e l’ex presidente del Consiglio all’hotel Excelsior di Roma, alla presenza di Marino Pulito, braccio destro dei Modeo, e Vincenzo Serraino, funzionario dell’Archivio di Stato, poi condannato per mafia, che aveva fatto da tramite con il capo della P2. Ma torniamo alle stragi e agli attentati.
Ad imprimere una svolta sarebbe stato un colloquio in carcere tra l’avvocato Mandalari e Pasquale Morabito. Racconta Modeo: «Morabito mi disse: “Compare, c’è una situazione critica. Un magistrato a Milano sta facendo indagini insieme a magistrati svizzeri e sta per arrivare a finanziarie Fininvest. Scoppia un putiferio”. Anche uno dei nostri ragazzi a Milano utilizzava una di queste finanziarie, da dove passavano transazioni col Sudamerica per pagare la merce, eroina, cocaina. Morabito mi fece il nome di Dell’Utri, mi disse che era uno dei proprietari di queste finanziarie». Il magistrato che stava indagando era Ilda Boccassini. Era lei che volevano ammazzare. E Morabito avrebbe chiesto proprio a Gianfranco Modeo un killer per far fuori la Boccassini. Ma il secondo dei fratelli Modeo nega il favore: «Gli dissi: ma vi rendete conto? Una cosa è fare un favore se si tratta di un pregiudicato, ma alzare il tiro no».
Chi invece non si era preoccupato di alzare il tiro erano stati i corleonesi che avevano ammazzato Falcone e Borsellino. In carcere Gianfranco Modeo entra in contatto prima con i Madonia, poi con Bernardo Brusca: «Mi dissero che non potevano tornare più indietro, non si sarebbero fermati. Cominciarono a fare gli attentati sul continente Si parlava di creare il caos. Poi con i primi collaboratori di giustizia cominciò la paura». E la stagione delle stragi finì praticamente lì. Tutto svelato nell’udienza del 12 ottobre scorso, dove avrebbe dovuto essere ascoltato anche Marino Pulito, l’uomo che per conto dei Modeo «girava per l’Italia» e in particolare la Calabria, in cerca di contatti e lavoro con altre famiglie malavitose. Anche lui collaboratore di giustizia, Pulito non è stato però rintracciato. Forse ne sapremo di più nelle prossime udienze.
Enzo Ferrari
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