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​Quei terribili anni di sangue e di terrore​

L’equilibrio fu rotto il 23 settembre 1988. Un killer fredda sull’uscio di casa don Ciccio Basile, boss di antico stampo della malavita tarantina. Era lui che, tra usura e traffico di reperti archeologici, garantiva la pax mafiosa in città. Sono trascorsi trent’anni da quel primo fondamentale omicidio. Ma ci vorrà un altro anno prima che la città venga insanguinata dalla faida bestiale tra i fratelli Modeo: la guerra dell’89-’91.

La morte di Ciccio Basile spiana la strada ai nuovi clan. Da una parte c’è Antonio Modeo, detto “Il messicano”. Suoi sodali sono Salvatore De Vitis e Antonio Vuto. Quest’ultimo e Modeo aderiscono alla Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo e sarebbe stato proprio il boss di Ottaviano a benedire l’eliminazione di Basile. Antonio Modeo, però, ha tre fratelli: Riccardo, Gianfranco e Claudio, che poi stringeranno una alleanza con Salvatore “manomozza” Annacondia, lo spietato boss di Trani. Fra Antonio Modeo e gli altri tre fratelli non corre buon sangue e nemmeno intesa sul traffico di eroina. E che alle soglie dell’estate dell’89 stia per accadere qualcosa di irreparabile lo si intuisce da alcuni inquietanti episodi.

A maggio viene assassinato Vito Masi, altro boss della vecchia guardia. E in quelle settimane ci sono strani movimenti d’auto che preparano il terreno alla guerra che si scatenerà da lì a poco. Un capannone nelle campagne tra Statte e Crispiano comincia ad affollarsi di auto di grossa cilindrata. Bolidi rastrellati in giro per la provincia e affidati a Michele Galeone, muratore stattese, uomo fidatissismo e autista personale di Antonio Modeo. A cosa servono tutte quelle macchine dalla potenza così esplosiva? Galeone si lascia sfuggire una frase che gli costerà la vita: «Ci stiamo preparando alla guerra contro Riccardo». Galeone sarà assassinato la mattina del 31 agosto, al bivio tra Statte e Crispiano. Lui è al volante di una Fiat Uno. Viene raggiunto e fermato da una Lancia Thema. Due sicari aprono il fuoco e, nonostante un disperato tentativo di fuga a piedi, Galeone viene colpito a morte. «Compare, tutto è fatto. Quello è morto».

Poche agghiaccianti parole bastano a Marino Pulito, pulsanese, commerciante di carni e alleato di Riccardo, Gianfranco e Claudio Modeo per comunicare proprio a Riccardo che la missione è compiuta. Lo scenario è quello di una isolata masseria di Montescaglioso: il bunker dove i tre fratelli sono nascosti. Il 31 agosto è una data particolare, molto particolare. Date e circostanze che si intrecciano in una spirale di sangue. Il 31 agosto è infatti il giorno in cui si celebrano i funerali di Cosima Ceci, la madre dei fratelli Modeo. L’anziana donna muore dopo una agonia di alcuni giorni, dopo essere rimasta vittima dei killer che le sparano nella sua stessa abitazione. Un messaggio chiarissimo: la vendetta per l’uccisione di Paolo De Vitis, padre di Salvatore, l’alleato di Antonio il Messicano. La faida è cominciata. Sarà una guerra senza esclusione di colpi, una guerra bestiale che farà anche vittime innocenti: come la piccola Valentina Guarino, sei anni appena, freddata mentre era fra le braccia del padre, vero bersaglio dei killer.

O come Angelo Carbotti, ammazzato senza pietà per il solo fatto di aver accompagnato in ospedale una donna, sorella di un boss, rimasta ferita in un incidente d’auto. Scambiato per un affiliato al clan De Vitis, il giovane venticinquenne - ignaro di aver prestato aiuto alla persona sbagliata nel momento sbagliato, viene ucciso da una raffica di colpi sulla soglia del pronto soccorso del Santissima Annunziata. Ed estranei alla guerra di mala erano anche le quattro vittime della strage della barberia, l’episodio più cruento della guerra di mala. È la sera dell’1 ottobre 1991: un commando entra in azione in una sala da barba in via Garibaldi, in Città Vecchia. Si cerca un boss da ammazzare, si spara all’impazzata. Ma il boss non c’è e a morire sono il barbiere e i suoi sfortunati clienti. Fu il colpo di coda, poi la mano della giustizia e delle forze dell’oridine posero fine a questa pagina nera della storia tarantina macchiata e marchiata da una delle più violente guerre di mafia vissute in Italia.

Trent’anni dopo di quei cupi anni di sangue non resta quasi più nulla, se non l’attento monitoraggio che magistratura e forze dell’ordine compiono sui vecchi affiliati che, scontata la pena, stanno lentamente tornando in libertà. I capi storici, invece, hanno avuto destini diversi. Antonio Modeo, il Messicano, sarà ammazzato in un agguato il 16 agosto del 1990 a Bisceglie, mentre in bicicletta rientrava dal mare. Stessa sorte era già toccata, questa volta a Milano, a Salvatore De Vitis. E i tre fratelli Riccardo, Gianfranco e Claudio? Quest’ultimo è venuto a mancare cinque anni fa nel carcere di Secondigliano, a seguito di malattia. Gianfranco ha goduto del programma di protezione per essere diventato collaboratore di giustizia e ora è un libero cittadino. Riccardo, il capo clan, sta scontando l’ergastolo per svariati omicidi. Dopo un peregrinare per case circondariali, è stato da poco trasferito nel carcere di Campobasso. Il suo avvocato Maria Letizia Serra ha presentato anche un ricorso alla Corte Europea di Strasburgo per superare alcune norme restrittive, in particolare l’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario, sul divieto di concessione dei benefici per i condannati a seguito di particolari delitti.

Una battaglia, quella per l’abolizione del l’articolo 4 bis, sulla quale è impegnata anche la storica militante radicale Rita Bernardini. Una norma che, secondo chi ne chiede l’abrogazione, sarebbe in contrasto col principio costituzionale dello scopo rieducativo della pena.

Enzo Ferrari
Direttore Responsabile

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